sabato 15 settembre 2012

Jean Francois Lyotard


Una comprensione adeguata del pensiero filosofico degli ultimi decenni è possibile soltanto se si mette in evidenza un'atmosfera culturale che prende il nome di “postmoderno”.
Con tale termine non si intende né un movimento né una scuola, bensì una tendenza, la cui classificazione cronologica e concettuale presenta molteplici difficoltà.
In maniera generale possiamo distinguere due diversi significati del termine postmoderno.
Il primo ha come termine di riferimento l'età moderna e ha come sua massima espressione l'illuminismo. Il secondo, invece, trova origine all'interno del contesto letterario degli anni trenta. A partire dagli anni settanta, però, il dibattito prende maggiore consistenza ed inizia ad interessare in maniera vistosa la filosofia.
Questo dibattito ha genesi nella cultura anglosassone e si collega in maniera particolare alla critica letteraria ed artistica degli Stati Uniti d'America. Bisogna comunque sottolineare il fatto che l'influenza e la diffusione delle tematiche filosofiche hanno portato ad un nuovo quadro filosofico internazionale secondo cui non si può più parlare in maniera schematica. Ed infatti, mentre originariamente l'ontologia ermeneutica appariva come un prodotto esclusivamente tedesco, lo strutturalismo come un prodotto di quello francese e la filosofia analitica come un prodotto di quello inglese; ora si ha uno scambio tra le diverse aree culturali, con il risultato di un processo di fecondazione tra il pensiero filosofico dell'una e dell'altra sponda dell'atlantico.
Risultato di ciò è la diffusione negli Stati Uniti della fenomenologia husserliana, dell'ontologia heideggeriana, dell'ermeneutica gadameriana e del poststrutturalismo derridiano.
La caratteristica peculiare del postmoderno è il rifiuto delle grandi concezioni e costruzioni sistematiche che presuppongono un procedimento dialettico logico ed esaustivo, in sostituzione di una concezione frammentaria e prospettica del sapere.
La filosofia stessa viene accostata più alla letteratura, ad una forma di arte, che non a schemi di stampo logico e scientifico.
La critica di Heidegger verso un sapere che culmina in ultima istanza nella metafisica e, in special modo, nelle grandi costruzioni speculative dell'idealismo tedesco, a cui neppure Nietzche ha saputo del tutto rinunciarvi, può essere interpretata come la conferma della fine di un certo tipo di filosofia e di un certo tipo di civiltà.
Quando si parla di civiltà lo si fa in maniera totale, in quanto la frammentarietà del sapere e la rottura degli schemi tradizionali valoriali interessano tutti i campi della vita dell'uomo.
Il postmoderno non deve essere inteso come un rovesciamento dialettico del moderno, perché in tal caso rientrerebbe nuovamente nell'orbita della razionalità tradizionale ed hegeliana, bensì come un vero e proprio collasso della storicità che coinvolge l'uomo e tutti i suoi presunti valori e fondamenti.
In tale contesto si inserisce Jean Francois Lyotard (1924 – 1998) con il suo volume La condizione postmoderna, del 1979.
Tale volume non è un trattato filosofico nel senso stretto, bensì una relazione scritta per il governo Quebec. Il problema del postmoderno viene analizzato in considerazione del mutamento di un sapere che è cambiato sin dalle radici nelle istituzioni che l'hanno promosso, a partire dall'università.
La colonna portante del testo è la considerazione che il sapere moderno, anche quello scientifico, ha cercato di legittimare se stesso mediante dei grandi racconti, che ha trovato massima espressione nell'illuminismo rivoluzionario e nell'inquadramento entro un sapere speculativo che si è espresso nella filosofia classica tedesca.
La caduta della modernità coincide con la perdita di validità e di credibilità delle grandi costruzioni filosofiche, dei cosiddetti “grandi racconti”. Ciò ha comportato la nascita di modelli completamente diversi di sapere.
Alla coerenza logica, intesa nell'antica maniera della filosofia classica, viene contrapposta la “paralogia”. Paralogia che ha il compito ben specifico di contrastare la coerenza logica stessa e di dispiegarsi nelle direzioni più diverse. Il riconoscimento della funzione della paralogia porta all'affermazione della validità della frammentarietà. Frammentarietà che ha portato ad una trasformazione dell'ideale del sapere e della sua trasmissione.
Un ruolo importante in tal senso ha avuto la sempre più crescente diffusione dell'informatica che ha abbattuto la concezione tradizionale di trasmissione del sapere in maniera individuale per privilegiare, invece, l'uso di “banche dati”. Esse costituiscono la nuova enciclopedia, il cui uso va molto al di là di qualsiasi loro utilizzazione singola.
Importante nello sviluppo del pensiero di Lyotard e la rilettura della Critica del giudizio di Kant. Tale rilettura lo porta ad effettuare una distinzione ben precisa tra giudizio determinato e giudizio riflettente.
Il primo viene considerato come il modello dei procedimenti tecnologici anonimi e ripetitivi. Ed infatti subordina il particolare all'universale. Il secondo, invece, muove dal particolare alla ricerca di un universale che non potrà mai possedere contenutisticamente, se non solo in maniera formale, ossia come accordo o disaccordo di facoltà.
Il giudizio riflettente estetico si articola nel bello e nel sublime. Questa distinzione è essenziale per cogliere le affinità tra la politica e l'arte. Ed infatti, il bello è la ricerca dell'armonia, delle proporzioni tra le parti, della simmetria e dell'equilibrio, mentre il sublime, legato al concetto di infinito, di smisurato e di grandezza indicibile, presuppone un contrasto tra le facoltà che, pur non potendo mai essere sanato, può essere elaborato in maniera critica. Ciò perché una delle sue facoltà in gioco è proprio la ragione, e in particolare la ragion pratica. Per tale motivo, il sublime può consentire una sorta di progresso nell'estetica, nell'educazione morale e nell'educazione politica. Bisogna, però, mettere in evidenza che il progresso non riguarda solo il sapere e la tecnica, ma anche la sensibilità.
In tal senso Lyotard polemizza contro coloro che insistono sulla centralità del consenso fondato sulla comunicazione di tipo argomentativo. Ciò che conta è, invece, quello che accade quando si ha a che fare con frasi che sono sentimenti, ossia la ricettività della ragione nel suo conflitto con la sensibilità, ovvero quel dissenso che è il solo consenso di cui dobbiamo preoccuparci.

Richard Rorty


Richard Rorty (1931 – 2007), autore di La filosofia e lo specchio della natura (1980) e Conseguenze del pragmatismo (1982), opera all'interno di un contesto filosofico fortemente influenzato dal secondo Derrida e dalla scuola di Yale. Da entrambi questi stimoli nasce una caratteristica riflessione americana che ha come suo massimo esponente Rorty, la cui formazione è il risultato della confluenza tra la scuola analitica di Oxford e il pragmatismo americano.
Rorty attribuisce alla posizione del secondo Derrida e della scuola di Yale il nome di “testualismo”. Con tale termine si esprime la convinzione ben precisa che l'intellettuale che pensa e scrive non dialoga mai con le cose, ma solo con in testi, e che, conseguentemente, le sue non sono mai riflessioni sul mondo, ma su testi scritti da altri.
Il testualismo, a parere di Rorty; si divide in due correnti principali. Esse sono:
  1. il testualismo debole, di cui il maggiore esponente è Gadamer, che, pur facendo consistere il pensiero nell'interpretazione dei testi, ritiene tuttavia che dietro di essi vi sia una verità, anche se questa rimane irraggiungibile nella sua interezza;
  2. il testualismo forte, di cui sono esemplari il secondo Derrida e la scuola di Yale, ha, invece, rinunciato al concetto di verità e intende tutta la realtà come una sorta di testi da interpretare, oltre che in maniera del tutto libera, senza dover rendere conto a nessuno della validità dell'interpretazione data.
Rorty ritiene da una parte che il testualismo debole sia incoerente, non riuscendo a portare sino in fondo le proprie istanze e dall'altra che il testualismo forte, interpretando il mondo come un insieme di testi, non sia altro che una stravaganza.
Le cose cambiano del tutto però se il testualismo viene utilizzato non per scoprire dei mondi, bensì per interpretarli. In tal caso, infatti, finisce di essere una stravaganza. Ciò perché i mondi non sono mai prodotti arbitrari, bensì entità valutabili in base alla loro funzionalità. In tale interpretazione del testualismo un ruolo importante lo riveste il vecchio pragmatismo.
Inoltre, Rorty prende in esame la frattura che si è venuta a creare e sempre più ad accentuare tra la filosofia tecnica e la vecchia filosofia di stampo tedesco.
La filosofia tecnica, da cui egli stesso proviene, comprende l'analisi del linguaggio, la semantica e la filosofia analitica. Tutte queste hanno rinunciato a priori ad un approccio creativo del discorso filosofico in vista del rigore dell'analisi.
La vecchi filosofia di stampo tedesco, invece, chiede alla filosofia la produzione di concetti non solo formali, ma di veri e propri discorsi sistemici, intellettualmente consistenti. Anche in questo caso il pragmatismo può essere un valido aiuto per sanare tale frattura.
Per Rorty la filosofia è sostanzialmente un “genere letterario” che deve essere sganciato da qualsiasi principio trascendentale o da qualsiasi presunto fondamento ontologico. La filosofia, in latri termini, non può garantire alcuna assolutezza o identificare la ragione con l'essenza.
Questa è una credenza che si è avuta a partire da Cartesio e che ha avuto in Kant il maggiore esponente. Il limite di questa convinzione non consiste solo nell'infondatezza della credenza stessa, ma, anche e soprattutto, nell'inutilità di essa. Ciò nel senso che il ritenere la filosofia un sapere oggettivamente fondante non ha avuto una funzionalità sociale, se non in maniera scarsa e comunque irrilevante. È stato solo una forma di culto praticato per alcuni secoli da un “isolato ordine sacerdotale”.
Per Rorty acquisisce maggiore senso rifarsi ai baconiani, che vedevano nella scienza una sorta di potere, oppure prendere sul serio le parole di Dewey, secondo cui per ridare al mondo il suo incanto, per ridare ciò che la religione dava ai nostri antenati, bisogna rimanere fedeli esclusivamente al concreto.
La ripresa del pragmatismo, in special modo di quello di Dewey, porta a tentare una “ingegneria sociale” in sostituzione della religione tradizionale. Il postmoderno, pertanto, viene dichiaratamente connesso al fatto che viviamo in un mondo secolarizzato in cui l'uomo ha preso coscienza del fatto di essere un essere finito, senza alcun legame con l'al di là.
Ciò non significa, per Rorty, affermare una sorta di relativismo o irrazionalismo. Si tratta, piuttosto, di ridimensionare i compiti affidati in maniera indebita alla ragione. Nel fare ciò bisogna tenere ben presente il legame della ragione con il linguaggio. Legame che deve instaurare una conversazione i cui criteri siano specificatamente pragmatistici, ossia temporanei punti fermi istituiti per finalità utilitarie, e cioè per scopi umani realizzabili.
Diviene chiaro, quindi, la peculiarità del neopragmatismo che, partendo dal presupposto che non esistano altri vincoli nell'indagine se non quelli discorsivi, vi scopre la base di un nuovo senso della comunità. Quest'ultima, infatti, ora può essere considerata realmente nostra, e non più della natura; e, pertanto, creata e non scoperta, ossia una delle tante edificate dagli uomini. Da Richard Rorty consegue che la forma di vita intellettuale europea non ha garanzie né di successo né epistemologiche né una meta perché è fine a se stessa. 

venerdì 14 settembre 2012

Paul Ricoeuer


Nagli anni sessanta e settanta si cercava di realizzare una fondazione dell'ermeneutica come compito specificatamente filosofico. Tale fondazione passava, però, non da una matrice heideggeriana, bensì da quella fenomenologica husserliana.
In tal senso si indirizza l'opera di Paul Ricoeur (1913 – 2005). Tra  i suoi scritti principali abbiamo: Della interpretazione, del 1965; Il conflitto delle interpretazioni, del 1969; La sfida semiologica, del 1974 e La metafora viva, del 1975.
Ricoeuer condivide con Husserl l'idea che la conoscenza precategoriale sia più autentica di quella organizzata in concetti e categorie.
Questo livello più autentico e profondo di conoscenza può essere raggiunto solo se non si considera il linguaggio come mero strumento di comunicazione, ma se lo si intende come sovradeterminato da valori che non si esauriscono nella comunicazione.
In maniera più precisa, il linguaggio comunicativo è composto solo da segni univoci, aventi la sola funzione comunicativa; mentre il linguaggio più fondamentale è composto da simboli, i quali non si limitano a designare come i segni, ma esprimono anche un valore esistenziale.
Il riuscire a cogliere il livello più profondo del linguaggio significa attuare una sfida semiologica. Sfida che l'uomo può e deve lanciare contro il mondo banalizzato della modernità.
Pertanto, Ricoeur indica la possibilità non di una sola ermeneutica, bensì di due.
La prima ermeneutica ha il compito di far riemergere i significati arcaici appartenenti all'infanzia dell'umanità non ancora banalizzata dalla modernità. La seconda ermeneutica, invece, deve fare emergere tutte quelle figure anticipatrici del nostro futuro sviluppo.
Entrambe le ermeneutiche devono partire dai simboli del nostro linguaggio. Simboli che da un lato ripetono l'autenticità della nostra infanzia e dall'altro stimolano l'avvento del nostro futuro.
Per tale motivo, Ricoeur interpreta l'ermeneutica dei simboli come regressivoprogressiva: regressiva perché si configura come reminiscenza ed arcaicità, progressiva perché si determina come anticipazione e profezia.
Sia l'ermeneutica di Gadamer che di Ricoeur condividono l'idea dell'esistenza di una verità come criterio ultimo con cui deve confrontarsi il pensiero. Ciò nonostante il fatto che alla filosofia non venga più dato il compito di scoprire, bensì quello di interpretare.



Hans Georg Gadamer


La critica effettuata da secondo Wittgenstein alla propria teoria del linguaggio come raffigurazione della realtà viene ripresa in maniera costante dalla filosofia del linguaggio per polemizzare contro tutte quelle dottrine fisicalistiche del linguaggio.
In maniera più specifica sono due le idee che vengono maggiormente riprese dalla suddetta autocritica wittgensteiana. Esse sono:
  1. al linguaggio non interessa accertarsi in maniera preventiva della verità o falsità dei suoi oggetti; anzi, possiamo affermare che al linguaggio rimane inessenziale una operazione di tal genere;
  2. al linguaggio, attraverso i suoi giochi e le sue regole, si deve la genesi dei predicati che utilizziamo per designare le cose. Conseguentemente, al linguaggio si deve la nascita dei nostri stessi concetti.
Queste due idee evidenziano due aspetti specifici del concetto di “verità” in ambito filosofico. Ed infatti, esse identificano da un lato il linguaggio con l'essenza dell'uomo come essere pensante, dall'altro, però, mettono in evidenza la finitezza dell'uomo stesso, in quanto essere incapace di possedere la verità, che, nonostante ciò, ritiene di non potere fare a meno di ricercare.
L'uomo, pertanto, non ricerca più la verità, ma una parte di essa. Conseguentemente, matura una concezione della verità come interpretazione linguistica di essa, ossia, utilizzando un termine greco, come ermeneutica.
In tal senso si era già mosso Heidegger con il suo continuo rinvio delle interpretazioni, per cui ogni spiegazione rinvia ad un'altra, e questa ad un'altra ancora secondo un processo all'infinito.
Ciò metteva in evidenza l'instabilità esistenziale dell'uomo. Instabilità che, configurandosi anche come dramma esistenziale, viene studiato dalla corrente filosofica dell'ermeneutica.
Fondatore dell'ermeneutica contemporanea è un discepolo di Heidegger, ossia Hans Georg Gadamer (1900 – 2002). Tra le sue opere principali abbiamo: Verità e metodo, del 1960; Piccoli scritti, del 1967 – 1977 e La ragione nell'età della scienza, del 1976.
Gadamer capovolge il senso dei “giochi linguistici” di Wittgenstein, in quanto per lui non è vero che i giochi linguistici siano usati dal giocatore, cioè il parlante, ma, al contrario, è il parlante ad essere un ingranaggio del gioco del linguaggio.
Ciò perché il parlante si trova sempre all'interno di una realtà linguistica a lui preesistente, ossia dinanzi ad una lingua ben precisa, a cui appartengono delle parole e tutta una serie di testi che in quella lingua sono stati scritti.
Diviene, quindi, essenziale il problema di costituire una linguaggio comune tra l'uomo e i testi che gli si impongono innanzi. Tale problema viene affrontato dall'ermeneutica, che si occupa di studiare il metodo per interpretare nella corretta maniera i prodotti già esistenti e il senso di essi.
L'ermeneutica per Gadamer deve focalizzare la propria attenzione non solo su ciò che è scritto, ma, anche e soprattutto, sul nondetto, che spesso e volentieri è più importante di ciò che è esplicitato.
L'interpretante, a sua volta, interroga il testo in maniera non del tutto “libera”, ma con una precomprensione condizionante del testo. Tale autocomprensione è, a sua volta, condizionata dal testo su di noi.
Tutto ciò costituisce il cosiddetto circolo ermeneutico, e cioè le parti di un testo possono essere comprese in maniera corretta solo mediante una precomprensione preventiva del testo considerato nella sua totalità. Al contempo, però, non può essere compresa la sua totalità se non attraverso una corretta comprensione delle sue parti.
Per tale motivo si inizia da un approccio imperfetto, che possiamo definire di compromesso, e che è appunto la già detta precomprensione del testo. In realtà il testo e il suo interprete sono come due orizzonti, che dovrebbero fondersi insieme, ma che, non riuscendo a farlo, evidenziano la finitezza dell'uomo ed i limiti della sua conoscenza.
Il concetto di verità di Gadamer assume un significato del tutto particolare. La verità, infatti, si genera dall'integrazione da parte di due mondi (la realtà e l'interprete, ossia il testo e l'interprete). Tale integrazione è perseguibile perché si ha una qualche armonia di base tra le due strutture. Nonostante ciò, però, l'integrazione tra i due può essere soltanto parziale, e, comunque, mai definitiva. La formazione dei concetti nella mente dell'uomo, quindi, sono il prodotto dell'impossibilità di una comprensione totale del mondo. Incomprensione che costringe l'uomo a ripiegare su tutti quei frammenti di comprensione, che sono appunto i concetti.
Gadamer polemizza, inoltre, contro la presunzione da parte della scienza di giungere a conoscenze stabili. Tale presunzione ha la sua massima espressione nel concetto stesso di metodo. Per Gadamer con il termine metodo si intende uno strumento attraverso cui un soggetto pretende di disporre a suo piacimento un oggetto. La scienza sbaglia perché scambia tale metodo con la verità. Ed infatti, la verità non è mai un possesso dell'oggetto, ma un perenne ed incessante processo di domanda e risposta fra l'interprete e il mondo.

giovedì 13 settembre 2012

Cenni di sociologia americana


La sociologia americana ha assunto delle caratteristiche peculiari grazie al contesto storico – sociale in cui si è evoluta e tramite gli sviluppi filosofico – culturali.
La sociologia affermatesi in America risente, in un primo momento, fortemente l'influsso delle teorie evoluzionistiche, in special modo del darwinismo, secondo cui la vita della società va spiegata ed interpretata in base alla lotta per l'esistenza e la conseguente selezione naturale, in cui solo il più forte sopravvive. L'influsso del darwinismo è dettato dallo sviluppo economico che sembrava aprire orizzonti infiniti ed illimitati di successo e di progresso sia individuale che collettivo.
In seguito, però, la sociologia americana viene a interagire con il pragmatismo e con la sua concezione attiva e dinamica della coscienza, intesa come progettazione intersoggettiva e interazionale.
George Herbert Mead (1863 – 1931), filosofo, psicologo e sociologo statunitense, fu autore di Mente, sé e società, del 1934.
Egli mette in evidenza il carattere simbolico del rapporto umano, evidenziando l'importanza del linguaggio per la comprensione del rapporto tra l'uomo e la società e per il controllo dei rapporti sociali.
Thorstein Veblen (1857 – 1929) fu autore di La teoria della classe agiata, del 1899; de La teoria dell'impresa d'affari, del 1904; de L'istinto dell'efficienza e lo stadio delle tecniche industriali, del 1914 e de Il ruolo della scienza nella civiltà moderna, del 1919.
Veblen mette in luce gli aspetti essenziali della vita sociale della società industriale contemporanea con la cosiddetta dottrina “tecnocratica”, che analizza ed evidenzia la funzione di guida propria dei “tecnici” nella produzione, e quindi la necessità di tenere conto anche sul piano politico dell'importanza di tale loro funzione.
Talcott Parsons (1902 – 1979), sociologo statunitense, fu autore de La struttura dell'azione sociale, del 1937; dei Saggi sulla teoria sociologica, del 1949; de Il sistema sociale, del 1951; di Struttura e processo nelle società moderne, del 1960 e di Teoria sociologica e società moderna, del 1967.
Egli assume il funzionalismo in chiave sociologica. Ciò è conseguente ad una reazione contro gli indirizzi puramente storicistici ed evoluzionistici rivolti a spiegare ogni cosa con un metodo storico – genetico. Si deve, invece, avvicinare ai fatti sociali mediante uno strumento di comprensione e di confronto razionale che consenta di inquadrarli in modo veramente scientifico, e di scientificità si può parlare solo là dove si abbia una connessione sistematica.
Nei decenni successivi si sviluppò una serrata critica al funzionalismo, accusato di essere troppo astratto e neutrale rispetto ai grandi conflitti sociali e politici.
Charles Wright Mills (1916 – 1962), sociologo statunitense, fu autore di Colletti bianchi, del 1951; di Carattere e struttura sociale, del 1953; de L'élite del potere, del 1956; de L'immaginazione sociologica, del 1956; di Immagini dell'uomo, del 1959; di I marxisti, del 1962 e di Politica e potere, del 1963.
Egli è uno degli esponenti più importanti della “sociologia critica”. Importante è la sua ripresa del problema del metodo della ricerca sociologica.
Mills respinge la “grande teorizzazione”, e cioè il funzionalismo, perché esso presuppone la legittimità del potere e preclude ogni possibilità di comprendere effettivamente i conflitti, gli antagonismi e le rivoluzioni.
Mills polemizza anche contro gli empiristi astratti che si illudono di garantire la scientificità della loro ricerca appellandosi a criteri analoghi a quelle delle scienze naturali, ma in realtà sono del tutto incapaci di cogliere le strutture storico – sociali nella loro specificità storica, poiché considerano la società semplicemente come la somma di individui concepiti e studiati “atomisticamente”.



mercoledì 12 settembre 2012

Karl Mannheim


Karl Mannheim (1893 – 1947), filosofo e sociologo ungherese, si laurea con lo scritto L'analisi strutturale dell'epistemologia, nel 1922. Dal 1925 al 1933 fu insegnante all'università di Francoforte. Con l'avvento del nazismo fu costretto a trasferirsi a Londra, dove insegna sino alla morte.
Tra i suoi scritti principali abbiamo: Ideologia e utopia, del 1929; Uomo e società in un'età di ricostruzione, del 1935; Diagnosi del nostro tempo, del 1944; Libertà, potere e pianificazione democratica, del 1950 e Sociologia sistematica, pubblicata postuma nel 1957.
Karl Mannheim interpreta la sociologia della conoscenza in senso storicistico legandola alla attuale “costellazione” della nostra civiltà.
I fattori più determinanti di questa “costellazione” sono la scoperta da parte del pensiero della relatività delle proprie posizioni e il fatto che la coscienza tende ad attuare un proprio “smascheramento”.
In altre parole, la sociologia della conoscenza si presenta in maniera molto più complessa rispetto alla scoperta del carattere ideologico della coscienza. Ed infatti, con quest'ultima si pensava di aver acquisito un'arma invincibile di lotta contro l'ideologia delle classi dominanti.
In realtà, invece, si è realizzato un processo che ha portato a ritorcere quell'arma contro le classi subalterne, mettendo in luce il carattere ideologico delle loro posizioni. In tal modo, diviene essenziale il problema di uno smascheramento “totale” delle ideologie contrapposte capace di riferirle all'intero essere sociale che le sostiene.
Questo problema porta ad una progressiva dissoluzione della concezione unitaria obiettiva del mondo in due direzioni tra loro opposte: da un lato l'ideologia come funzione conservatrice dello stato reale della società, e dall'altro l'utopia come funzione di rottura rispetto alla condizione sociale esistente.
In tal senso tocca alla sociologia della conoscenza giungere al massimo punto di scientificità possibile; promuovendo realmente una sorta di democrazia pianificata dove spetta agli intellettuali indicare le linee di azione scientificamente fondate e diverse da quelle semplicemente ideologiche ed utopiche.

sabato 8 settembre 2012

L'antropologia culturale


L'antropologia culturale, a differenza di quella filosofica, si basa sulle “ricerche sul campo”, ossia su una serie di indagini dirette sulle popolazioni prese in esame.
Franz Boas (1858 – 1942), antropologo ed etnologo tedesco, fu autore de La mente dell'uomo primitivo, del 1911; di Arte primitiva, del 1927; di Antropologia e vita moderna, del 1928 e della raccolta Razza, linguaggio e cultura, del 1940.
Boas intende superare sia la dottrina evoluzionistica che diffusionista. Egli, infatti, si fa assertore di una sorta di “relativismo culturale”, ossia di una concezione intesa a cogliere ciò che caratterizza ogni singola cultura.
Boas respinge qualsiasi metodologia astratta ed afferma la presenza di elementi autonomi nello sviluppo di certe popolazioni. Ovviamente in una cultura si possono avere la presenza e l'effetto di relazioni con popolazioni più o meno vicine.
In maniera generale, però, è insostenibile il principio evoluzionistico “unilineare” secondo cui si ha in una civiltà il passaggio dal semplice al complesso. Ed infatti, come dimostra sia il linguaggio che la struttura della vita familiare, spesso i fenomeni culturali dei popoli primitivi presentano caratteri assai più complessi che non nei popoli ad alto livello di civiltà.
Si può, semmai, dire che il processo sia inverso, ossia dal complesso al semplice.
Alla stessa maniera, non si può in alcun modo concludere che che esista un'unica linea di sviluppo per tutte le culture sulla base di semplici parallelismi. Inoltre, le condizioni geografiche ed economiche possono sì influire lo sviluppo di una certa cultura, ma non possono essere in alcun modo intese come dei principi deterministici secondo cui l'evolversi di una società avviene in maniera rigida, secondo leggi di causa effetto.
Alfred Kroeber (1878 – 1960), antropologo ed etnologo statunitense, fu autore di Antropologia, del 1923; del Manuale degli indiani della California, del 1925; de La natura della cultura, del 1952 e di Antropologia oggi, del 1953.
Kroeber definisce la specificità della cultura non solo rispetto al comportamento animale, ma anche rispetto a quello personale e sociale dell'uomo stesso. Nel fare ciò si inserisce all'interno del dibattito dello storicismo tedesco inerente il problema delle scienze storico – sociali e dei valori culturali.
Per Kroeber persona, società e cultura sono tre livelli di comportamento di complessità diversa, nessuno dei quali è riducibile all'altro e rispetto ai quali non ha molto senso chiedersi la genesi o la causalità.
La specificità della cultura consiste nel fatto che essa condiziona il comportamento dell'uomo, anche quello biologico, sin dall'inizio della sua esistenza. Ora, mentre nelle scienze naturali è possibile risalire dagli elementi semplici a quelli più complessi; nel caso della cultura questa metodologia risulta impossibile. Ciò perché si ha a che fare con “relazioni totali”, entro le quali hanno particolare importanza i valori nel loro carattere sovrapersonale e collettivo.
Infine, la cultura si ha soltanto nell'uomo in quanto i rapporti vengono regolati dal linguaggio e dalla capacità di simbolizzazione. Si possono, invece, avere delle società, come quelle degli insetti, che, però, mancano di cultura.
Bronislaw Malinowski (1884 – 1942), antropologo ed etnologo polacco, fu autore de Gli argonauti del Pacifico occidentale, del 1922; de La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord – occidentale, del 1929, di Magia, scienza e religione, del 1925; di Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, del 1927 e di Teoria scientifica della cultura, del 1944.
Egli fu uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “funzionalismo”.
Alla base di questa dottrina si ha non solo un rifiuto dell'evoluzionismo e del diffusionismo, ma anche di qualsiasi spiegazione dei fenomeni culturali basata su metafore organicistiche, così come di qualsiasi concetto di “forma” come elemento su cui basare giudizi di affinità o di differenza tra le diverse culture.
Per Malinowski, nello studio della cultura, è importante non tanto l' “identità della forma”, bensì la “diversità della funzione”.
Ciò significa che, ad esempio, non è importante ritrovare tra le diverse culture un oggetto simile (ad esempio un bastone), bensì la funzione o l'impiego che ricopre in ognuno di essa, che può essere rituale, agricola, di caccia, ecc.
Nello studio delle funzioni bisogna, inoltre, risalire ai bisogni a cui devono rispondere. Nel fare ciò si deve procedere con un metodo rigoroso, e cioè operando una distinzione tra gli imperativi fondamentali di un bisogno necessario (ad esempio la nutrizione, la riproduzione della specie, ecc.) e gli imperativi che derivano dalle modalità culturali di soddisfarli (basta pensare, ad esempio, al diverso modo di cucinare un cibo o di fare sesso. Modalità che vanno al di là della necessità biologica di nutrirsi o di riprodursi).
Si tratta, pertanto, di capire come i bisogni primari di una comunità vengano soddisfatti in modi indiretti. Modi indiretti che, a loro volta, impongono nuove condizioni e nuove bisogni. Da questi derivano i cosiddetti imperativi “strumentali” della cultura, come l'organizzazione economica, il diritto e l'educazione.
Ciò non significa che si possa istituire una connessione e corrispondenza univoca e rigida tra istituzioni e bisogni.
Bisogna, inoltre, evitare di operare una rigida differenziazione tra uomini “primitivi” e “civilizzati”, come se i primi obbedissero solamente ad una mentalità meramente magica, quando, invece, i selvaggi si comportano in maniera perfettamente logico – sperimentale nell'ambito di quelle operazioni dove le loro conoscenze e le loro tecniche sono adeguate, mentre si affidano a pratiche magiche là dove non giungono con la loro conoscenza.

L'antropologia filosofica


L'antropologia si occupa dello studio dell'uomo in quanto tale e affonda le sue radici nel pensiero filosofico tedesco con autori come Herder, Kant e von Humboldt.
Tale disciplina prende avvio grazie a quelle scienze sempre più attente ad approfondire gli aspetti peculiari del comportamento umano e grazie allo sviluppo di tutte quelle tematiche fenomenologico – esistenzialistiche volte a porre attenzione sull'uomo di contro a tutti quei grandi sistemi della “ragione” o alla riduzione della vita spirituale a meri fatti “positivi”.
Una tappa importante per lo sviluppo dell'antropologia filosofica si ha in Germania con l'opera di Max Scheler dal titolo La posizione dell'uomo nel cosmo, del 1928.
Secondo Scheler bisogna fondare una nuova antropologia filosofica che riesca a giungere ad una concezione unitaria dell'uomo. Per fare ciò bisogna superare le tre concezioni contrastanti ed inconciliabili che si sono sviluppate all'interno del pensiero occidentale. Esse sono:
  1. la concezione giudaico – cristiana dell'uomo, secondo cui l'uomo è essenzialmente un essere caduto;
  2. la concezione greca, secondo cui l'uomo partecipa di una razionalità sovrumana, di un logos che è fondamento dell'ordine dell'universo;
  3. la concezione delle scienze umane, secondo cui l'uomo altro non è che il frutto dell'evoluzione.
La posizione dell'uomo deve, invece, essere compresa prendendo in esame le energie e le facoltà psichiche messe in evidenza dalla scienza. Ciò significa che l'uomo non deve analizzato prendendo in considerazione le sue facoltà o le diverse attività in cui si esplica (arte, religione, filosofia, scienza, ecc), ma prendendo in considerazione soltanto lo spirito come capacità di emanciparsi dai comportamenti legati all'organismo. Emancipazione che porta l'uomo ad “oggettivare” sia se stesso che l'ambiente. Operazione questa di cui l'animale non è capace. A questa forma di oggettivazione non corrisponde una sospensione del giudizio di tipo husserilana, ma un vero e proprio dire no ai dettami della natura, un uscire fuori dal mero ciclo vita – morte, e, pertanto, un innalzamento al di sopra della realtà per una riformulazione del tutto diversa.
La negazione, dice Scheler, non deve essere intesa né in maniera greca, come se lo spirito avesse una propria autonomia ed una propria attività, né in senso schopenhaueriano, ossia come identificazione dello spirito come negazione; bensì in senso esclusivamente produttivo. Ciò significa che la negazione permette alla spirito di impadronirsi delle forze vitali, che confluiscono sempre dal basso e mai dall'alto, rifiutando di adagiarsi o di adeguarsi della realtà circostante.
Helmuth Plessner (1892 – 1985), filosofo e sociologo tedesco, fu autore di innumerevoli scritti. Tra di essi i principali sono: L'unità dei sensi, del 1923; I gradi dell'organismo e l'uomo. Introduzione all'antropologia filosofica, del 1928; Il destino delle spirito tedesco alla fine della sua epoca borghese, del 1935, Riso e pianto, del 1941; Tra filosofia e società, del 1953; Conditio humana, del 1964 e Al di qua dell'utopia del 1966.
Anche Plessner afferma il distacco consapevole dell'uomo dall'animalità e dalla corporeità. Egli, inoltre, insiste sul carattere “eccentrico” dell'uomo rispetto agli altri esseri viventi.
Con la civiltà e la cultura l'uomo, infatti, ha costruito tutta una serie di strumenti di dominio della realtà (“protesi”) che prolungano i suoi organi, ma che, al contempo, rendono sempre più sconcertante il suo rapporto con il mondo. In tal senso basta pensare a tutte quelle discussioni incentrate sulla funzione disumanizzante della tecnica.
Questo carattere “eccentrico” dell'uomo deve portarlo ad escludere qualsiasi tipo di discorso metafisico sulla sua natura sia in senso creazionistico quanto in senso evoluzionistico e materialistico. L'uomo, quindi, deve limitarsi a riconoscere la peculiarità della sua posizione storica come campo in cui si attuano le sue capacità esplicative e creative. Ciò, però, deve essere compiuto senza fare ricorso a false utopie, ossia senza ricorrere a leggi universali e rigorose che vadano a trascendere i limiti intrinseci dell'antropologia.
Arnold Gehlen (1904 – 1976) fu filosofo, antropologo e sociologo tedesco. Tra le sue opere principali abbiamo L'uomo, la sua natura e la sua posizione nel mondo, del 1940; Uomo arcaico e tarda civiltà, del 1956; L'uomo nell'era della tecnica, del 1957 e Morale e ipermorale. Un'etica pluralistica, del 1969.
Anche Gehlen opera una distinzione ben precisa tra uomo ed animale. Distinzione basata sul fatto che l'uomo, al contrario dell'animale, non ha un ambiente specifico e non è legato a comportamenti organici o istinti ben precisi. Gehlen, però, focalizza l'attenzione sulla “filosofia delle istituzioni”, ossia sullo studio della genesi e della funzione delle istituzioni mediate dal linguaggio. E cioè su quel mondo in cui si è concretizzata la specificità del comportamento umano. La differenza dall'animale, almeno inizialmente, rappresenta per l'uomo una condizione di insicurezza, che viene superata mediante la comunicazione linguistica finalizzata alla nascita di una serie di istituzioni quali la famiglia, società, Stato, ecc. Istituzioni che costituiscono una sorta di garanzia oggettiva là dove è venuta a mancare quella dell'istinto.
Queste istituzioni, però, assumono una propria autonomia e rigidità, portanti quella alienazione di cui parla Hegel e Marx e che li rende non semplici strumenti alla portata dell'uomo.
Ciò giustifica la genesi di quel senso critico dell'epoca moderna rivolto contro le suddette istituzioni. Senso critico che non può portare alla liberazione dell'uomo, se non al rischio di una nuova condizione di indifesa e di disorientamento di egli stesso.

giovedì 6 settembre 2012

Strutturalismo.


Con il termine strutturalismo si definisce una corrente di pensiero che si sviluppa a partire dal secondo dopoguerra e che ha diffusione in special modo in Francia nel campo della critica letteraria, dell'antropologia, dell'etnologia, della psicologia, della sociologia e del marxismo. Un contributo importante allo strutturalismo proviene dalla scuola dei formalisti russi, dalla scuola linguistica di Praga e dagli studi semiotici sviluppatesi negli Stati Uniti d'America. Di notevole importanza sono anche gli apporti della psicologia della forma e della sociologia ad opera di Durkheim.
Tutti questi contributi si sono finalizzati al superamento delle concezioni puramente associazionistiche e atomistiche della vita psichica e della realtà sociale.
Lo strutturalismo non si viene a configurare come una vera e propria scuola, bensì come un indirizzo di pensiero a cui contribuiscono varie personalità. Tutte queste concepiscono la realtà come delle totalità, ossia come delle strutture, all'interno delle quali le parti si costituiscono e acquisiscono significato e assumono un certo valore. Possiamo, a chiarimento di ciò, fare l'esempio con una scacchiera, dove un pezzo ha un certo valore perché rientra in quel determinato gioco con delle precise funzioni, e non per la sua qualità intrinseca di essere un pezzo di legno, di avorio, di metallo, di ceramica, ecc.
Ciò non significa che la struttura sia un qualcosa di statico, ma chiarisce soltanto il fatto che ogni sistema è costituito ed è regolato strutturalmente, ossia secondo delle regole di quella struttura specifica, che sono, al contempo, il criterio della sua permanenza e della sua variazione.
Ferdinand De Saussure (1857 – 1913), linguista svizzero, fu autore di un importante Corso linguistico generale, postuma, del 1916.
L'opera di De Saussure nasce dall'intento di portare la linguistica a livello di scienza tramite il metodo dello strutturalismo. Egli non rinnega la validità e gli importanti contributi apportati in campo linguistico dalle correnti romanticistiche e storicistiche. Ritiene, però, che esse si siano soffermati e basati sostanzialmente su un metodo comparativo, senza affrontare il problema di cosa effettivamente sia e costituisca il fatto linguistico. Per adempiere a tale fine bisogna effettuare una distinzione ben precisa tra ciò che nel linguaggio è stabile da ciò che è in evoluzione e da ciò che è individuale da ciò che è sociale. Bisogna, inoltre, chiarire che il linguaggio si differenzia tra lingua e parola. La lingua, infatti, è un qualcosa di sociale, dotata di una propria struttura che non dipende dall'uso del soggetto parlante, ossia dalla parola. Inoltre, la lingua esiste all'interno di una comunità come un insieme di segni che possono essere studiati in modo oggettivo.
In tal senso la lingua è una vera e propria “istituzione sociale”, analoga alla scrittura, all'alfabeto dei sordomuti, ai riti simbolici, ai segnali militari, e, in quanto tale, deve essere considerata all'interno di quella disciplina che prende il nome di semiologia, ossia come studio della vita dei segni nella vita sociale. Per quanto concerne il segno linguistico bisogna evitare una concezione della lingua che la riduca a semplice nomenclatura, ossia ad una semplice lista di termini corrispondenti ad altrettante cose. Ed infatti, il segno linguistico non connette una cosa ad un nome, ma, più precisamente, un concetto ad una immagine acustica. L'immagine acustica, a sua volta, non è il suo suono materiale, come realtà puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono. Il segno linguistico, quindi, è una entità psichica a due facce (concetto ed immagine linguistica) che non deve essere ridotto, come avviene spesso, all'immagine acustica. Per evitare qualsiasi tipo di confusione e di ambiguità in merito bisogna “conservare la parola segno per designare il totale, e di rimpiazzare concetto ed immagine acustica rispettivamente con significato e significante, poiché questi due ultimi termini hanno il vantaggio di rendere evidente l'opposizione che li separa tra di loro, sia dal totale di cui fanno parte”.
La linguistica si esprime nella forma della sincronia e della diacronia. La prima studia i segni secondo l'asse della simultaneità, la seconda secondo l'asse della successione, ciò significa che i segni vengono studiati o nella loro evoluzione o prescindendo da essa.
L'evoluzione interessa sempre un sistema ben preciso retto da regole logiche e psicologiche. Conseguentemente il sistema linguistico muta sempre nel suo complesso, anche se tale mutamento può iniziare da una delle sue parti piuttosto che da un'altra.
La lingua, infatti, non è l'espressione di un pensiero già formato in sé, ma piuttosto il risultato di differenze concettuali e foniche che si stabiliscono e che si definiscono all'interno di quel sistema che è la lingua stessa.
Inoltre, un segno non ha importanza per quello che rappresenta in sé, ma piuttosto per quello che lo differenzia da tutti gli altri, alla stessa maniera di un pezzo di scacchi che assume una funzione ben precisa non mai in maniera isolata, ma solo all'interno di quel gioco, in rapporto alla funzione degli altri pezzi.
Un segno, quindi, acquisisce senso soltanto all'interno di un contesto sociale, ossia nell'uso e nel consenso generale. Uso e consenso che vanno al di là del singolo individuo, che, a sua volta, giunge a tale senso solo dopo un faticoso esercizio di apprendimento.
In tale prospettiva la linguistica può istituirsi come scienza. Ed infatti, essa riconosce l'arbitrarietà e la socialità della lingua come un sistema costituito e regolato da strutture formali autonome e costanti.
Claude Levi – Strauss (1908 – 2009) fu un etnologo francese. Tra le sue opere abbiamo: Le strutture elementari della parentela, del 1949; Tristi tropici, del 1955; Antropologia strutturale, del 1958; Il pensiero selvaggio, del 1962; Il crudo e il cotto, del 1964; Dal miele alle ceneri, del 1966; L'origine delle buone maniere a tavola, del 1968; L'uomo nudo, del 1971; Antropologia strutturale due, del 1973; Lo sguardo da lontano, del 1983; Parole date. Le lezioni al College de France e all'Ecole pratique de hautes etudes, del 1951 – 1982, pubblicate nel 1984 e, infine, La vasaia gelosa. Il pensiero mitico delle due Americhe, del 1985.
Per Levi – Strauss le condizioni che hanno permesso alla linguistica di istituirsi come scienza, ossia il considerare la lingua come una struttura che ha carattere di sistema, dove una qualsiasi modificazione al suo interno comporta la modificazione di un qualcos'altro, lascia aperta il passaggio dalle scienze esatte alle scienze umane, permettendo cosi' di garantire scientificità all'antropologia e all'etnologia.
La vita delle comunità arcaiche e primitive può essere, infatti, studiata in chiave comunicazionistica. Ciò perché la comunicazione non deve avvenire necessariamente mediante l'uso di segni linguistici, ma può attuarsi anche tramite scambi simbolici, come avviene nei rapporti di parentela.
Da tale punto di vista diviene possibile andare a costruire dei modelli rigorosamente logici che spiegano i costumi matrimoniali e i conseguenti rapporti di parentela (marito – moglie, fratello – sorella, padre – figlio, zio materno – figlio della sorella, ecc.) e, più in generale, consentono di prevedere le conseguenze delle modifiche dei termini nei modelli stessi.
In questa maniera l'antropologia e l'etnologia diventano una sorta di psicologia più complessa che permette di portare alla luce i modelli fondamentali in cui si organizzano in maniera inconsapevole le società. Modelli che non sono ovviamente infiniti e che conservano una certa costanza e similarità sia nei popoli detti civili, che in quelli detti primitivi.
Jacques Lacan (1901 – 1981), fu psicoanalista e filosofo francese, autore degli Scritti, del 1966 e a partire dal 1973 dei Seminari.
L'opera di Lacan è finalizzata allo sviluppo delle opere di Freud mediante le conquiste della linguistica strutturale. L'applicazione del metodo strutturale alla psicoanalisi di tipo freudiana è indirizzata all'istituzione di quest'ultima a disciplina scientifica.
In maniera più esatta, si tratta di mettere in evidenza che la psicoanalisi si basa su una concezione dell'inconscio come linguaggio. Conseguentemente le opere di Freud possono essere considerate dei testi di linguistica ante litteram.
Solo in questa maniera possono essere superate le varie concezioni limitative e superficiali del concetto di inconscio, che è stato interpretato come un ostacolo alla realtà, come una delle tante stratificazioni dei diversi piani del soggetto o, ancora peggio, come una sorta di conflitto tra la sfera istintiva e le forze psichiche.
Questo nuovo punto di vista porta ad interpretare l'inconscio per quello che realmente è, ossia un discorso intersoggettivo e sociale. Per potere avviare una reale scienza del soggetto bisogna, però, svincolarsi da quelle dottrine che affermano l'autonomia del soggetto. Ed infatti, si deve tenere sempre presente che nel formarsi della coscienza del fanciullo incide in maniera decisiva l'insieme dei simboli in cui si è costituito il discorso umano nella storia e nella società. Da questa prospettiva divengono perfettamente spiegabili in maniera adeguatamente simbolica e sociale anche tutti quei problemi squisitamente psicoanalitici, a partire dal complesso di Edipo, che rappresenta il dramma dell'uomo nel suo sforzo di diventare soggetto, di entrare nell'ordine sociale. Soggetto che può divenire sociale solo se si inserisce in un ordine simbolico già ben strutturato, ossia in un regno della cultura che è andato a soppiantare quello della natura e dove il padre rappresenta la legge della società con tutti i suoi divieti.
La rilettura operata da Lacan dell'opera di Freud diviene più chiara se si tengono conto dei motivi hegeliani della Fenomenologia dello spirito, ossia della dialettica dell'appetito e del rapporto coscienza – autocoscienza – riconoscimento, da lui utilizzati.
In altri termini, il discorso intersoggettivo, entro il quale la coscienza si costituisce, è animato dalla forza dell'appetito, ossia dal desiderio di essere riconosciuto dall'altro.
Tale desiderio è realizzabile solo tramite il linguaggio, e cioè mediante il mondo dei simboli, che comporta l'umanizzazione o la disumanizzazione del soggetto, che attraverso i simboli cerca di realizzarsi o che si allontana necessariamente da se stesso.
L'uomo, quindi, scopre l'importanza dell'altro per la formazione della propria coscienza. Tutto quanto abbiamo detto, pertanto, si sintetizza nella concezione che l'uomo sia una struttura, una rete di simboli, che vuole essere riconosciuto nel suo rapporto con l'altro. Tra psicoanalisi e linguistica si viene ad instaurare una inevitabile collaborazione metodologica. Ciò perché entrambi studiano il simbolo come sintomo.
Michel Foucault (1926 – 1984) fu autore della Storia della follia nell'età classica, del 1963; de Le parole e le cose, del 1966; della Nascita della clinica, del 1969; de L'ordine del discorso, del 1970; de L'archeologia del sapere, del 1976; de L'uso dei piaceri, del 1984 e de La cura di sé, del medesimo anno.
Foucalt giunge ad una critica radicale delle scienze umane e del loro oggetto. Inoltre, la sua opera è intrisa di una serie di analisi suggestive riguardo alla storia della medicina e della scienza, della filosofia e del pensiero economico, dell'arte e della letteratura.
La sua opera, però, non ha un intento meramente storico circa l'origine delle scienze e delle idee. Per Foucault, infatti, si tratta di effettuare una “archeologia del sapere”.
L'archeologia del sapere è un tipo di studio di stampo strutturalistico sia dei sistemi di simultaneità sia di mutazioni necessarie che hanno determinato profonde variazioni culturali all'interno di un certo campo epistemologico e di una certa concezione del sapere. Una ricerca, quindi, che intende studiare le diverse condizioni, o, ancora meglio, dell'a priori storico che ha portato il sapere a configurarsi via via in modo diverso sia dal punto di vista metodologico quanto nel suo concretizzarsi nelle varie e diverse forme di conoscenza empirica.
Seguendo questo metodo di studio Foucault ravvisa due grandi discontinuità nell'episteme della cultura occidentale. La prima è quella inaugurata nell'età classica della scienza moderna, ossia nel XVII secolo, ed è tutta incentrata sul concetto di rappresentazione e sulla concezione della scienza come sistema di rappresentazioni regolate da relazioni reciproche. L'altra ha avuto come presago Kant, che ha posto le domande “che cosa posso sapere, che cosa devo fare, che cosa posso sperare?”. A questi tre quesiti ne va aggiunto un altro, e cioè “che cosa è l'uomo?”. Questo quesito inizia ad essere posto agli inizi del XIX secolo e segna l'avvento del sonno antropologico. Caratteristica di quest'epoca, la nostra epoca, o, meglio ancora, dell'epoca che oggi volge al tramonto, è il diffondersi di un profondo senso di storicità che investe ogni campo del sapere e che ha tolto al linguaggio rappresentativo il posto privilegiato che aveva riservato nell'epoca precedente. Ciò ha posto per la prima volta al centro del sapere l'uomo e con ciò ha promosso lo sviluppo delle scienze umane. L'uomo è, pertanto, per Foucault una invenzione estremamente recente, una sorta di “lacerazione nell'ordine delle cose, una semplice piega nel nostro sapere che sparirà non appena questo non avrà trovato una nuova forma”.
La controprova di ciò è data dal carattere fortemente ambiguo delle scienze umane, che si trovano sospese tra l'empirico e il trascendentale, tra la scienza esatta (che pretende di fondare) e la filosofia (che pretende di sostituire e occuparne il campo).
Ciò avviene perché le scienze umane sono rimaste ancora legate ad una concezione della scienza come sistema di rappresentazioni, pur essendo ormai scomparsa la fiducia riservata nell'età precedente al valore scientifico assoluto del linguaggio rappresentativo.
Dalla condanna delle scienze umane si salvano però la psicoanalisi, l'etnologia e la linguistica. Psicoanalisi ed etnologia, infatti, operano in maniera del tutto opposta alla scienze umane. Ed infatti, mirano a ciò che sta al di là della rappresentazione. La psicoanalisi si rivolge all'inconscio, che interpreta come momento inaccessibile alla conoscenza teorica e ne fa emergere quelle che sono le figure fondamentali ( la Morte, il Desiderio e la Legge). L'etnologia, invece, interrompe il discorso cronologico della continuità storica per individuare le correlazioni sincroniche, le invarianti di struttura delle diverse culture.
La psicoanalisi e l'etnologia, quindi, si salvano dal naufragio delle scienze umane e fanno emergere i limiti di queste ultime. Ciò perché la psicoanalisi e l'etnologia lavorano alla dissoluzione dell'uomo, e corrispondono alla morte dell'uomo, già intravista da Nietzsche con la morte di Dio, e operano in un contesto linguistico divenuto teoria generale del discorso.
Si ha un rapporto diretto tra scomparsa dell'uomo e ritorno del linguaggio, poiché l'uomo costituisce l'a priori storico della cultura degli ultimi due secoli, ma la sua, altro non è, che l'inserimento tra due modi di essere del linguaggio, quando il linguaggio, dopo essersi dissolto nella rappresentazione, ha creduto di potersene liberare frammentandosi. Una figura quella dell'uomo che è destinata ad essere cancellata se andrà accentuandosi quella rinascita del linguaggio di cui è testimonianza e promessa la linguistica come una forma del tutto nuovo di decifrare le cose.
Jacques Derrida (1930 – 2004) fu filosofo francese. Numerosissime sono le sue opere. Tra di esse le più importanti sono: Della grammatologia, del 1967; La scrittura e la differenza, del 1967; La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, del 1967; Margini della Filosofia, del 1972; Posizioni, del 1972; La disseminazione, del 1972; La verità in pittura, del 1978; La cartolina postale. Da Socrate a Freud, del 1980; Dello spirito. Heidegger e la questione, del 1987 e Spettri di Marx del 1993.
Il confronto con lo strutturalismo porta Derrida a ritenere che la grammatologia, ossia la scienza della scrittura, sia lo strumento per affrontare le difficoltà in cui si è impigliata da secoli la filosofia.
L'opera di De Saussure viene interpretata in una duplice maniera da Derrida, che da un lato gli riconosce il merito di avere operato un nesso inscindibile tra significante e significato, ma, al contempo, critica il limite della distinzione tra signans e signatum. Ed infatti, tale distinzione fa pensare al signatum come ad un concetto dotato in se stesso di un proprio significato nella sua semplice presenza al pensiero.
Inaccettabile anche il privilegiare l'elemento fonetico del linguaggio rispetto alla scrittura. Privilegio questo connesso e conseguente ad una lunga tradizione del pensiero occidentale e al suo carattere logocentrico che annovera studiosi quali Platone, Aristotele, Rousseau, Hegel, Husserl. Tale privilegio dell'elemento fonetico del linguaggio rispetto alla scrittura porta a considerare quest'ultima come un qualcosa che sopravvive alla parola e che in qualche maniera la occulta e sclerotizza. Tutto ciò ha portato ad una elusione della scrittura dal campo della linguistica. Il nesso tra scrittura e linguaggio fonetico è qualcosa di molto settoriale e vi sono, inoltre, forme di scrittura diverse da quella fonetica. Questa impostazione, però, porta ad un problema ben più radicale e in un certo senso ontologico. Ed infatti, tale opposizione comporta l'opposizione tra un interno e un esterno e la convinzione che l'interno sia la verità come un dato, secondo uno schema analogo a quello che per Heidegger è stata nella storia della metafisica la riduzione dell'Essere all'ente nella sua presenzialità.
Questa prospettiva deve essere del tutto rovesciata. Ciò nel senso di ammettere come originaria una sorta di archistruttura che mantiene dello strutturalismo la concezione del linguaggio come gioco di differenze, ma esclude che queste differenze siano, per così dire, piovute dal cielo.
Proprio liberando la struttura da qualsiasi rigidità e considerando la struttura soggetta ad un continuo processo di trasformazione è possibile dare riconoscimento e sviluppo alle esigenze più legittime dello strutturalismo stesso.
Per comprendere meglio questa posizione bisogna riprendere il riferimento polemico alla concezione della verità come presenza enunciata da Heidegger.
Per un certo verso Derrida accetta le istanze heideggeriane circa la metafisica e la riduzione della verità alla rappresentazione dell'ente come presenza. Per altro verso, però, radicalizza tale critica per rivolgerla contro Heidegger stesso.
Con la nozione di differenza ontologica e del suo oblio in Heidegger, a parere di Derrida, rimane aperto uno spiraglio alla possibilità di un rapporto con l'Essere come un qualcosa di sussistente in sé al di là dell'ente, e, soprattutto, la concezione dell'opera d'arte come accadere della verità in una certa misura legittima ancora la concezione della verità come presenza. Da ciò anche la differenza della decostruzione di Derrida dalla distruzione di Heidegger della metafisica, a cui viene contrapposta. Il termine difference non può esser tradotto adeguatamente nella nostra lingua, forse, però, il concetto di differimento ne rende più aspetti.
Mentre la difference indicherebbe solo la differenza tra due termini, il termine difference è scelto per sottolineare che si tratta di qualcosa di processuale e temporalizzante, dove ogni termine acquisisce senso e sussiste solo in quanto tende a rinviare al da là di se stesso.
In tal senso nemmeno differimento rende bene l'idea, perché anche se contiene in sé il concetto di una dislocazione temporale, può essere interpretata come un atto più o meno arbitrario compiuto da un soggetto estrinseco e presupposto.
In realtà la difference qualifica intrinsecamente la scrittura poiché essa altro non è che un mondo di tracce, ciascuna delle quali a sua volta rinvia ad altre tracce, e non, come in una teologia negativa, ad un sottofondo inattingibile e ineffabile. La posizione di Derrida è qualificabile come testualismo (egli stesso ha detto “niente fuori del testo”), poiché non condivide l'illusione di un linguaggio nuovo o di un linguaggio perfetto, ma opera nella convinzione che l'intero ambito del linguaggio nel suo continuo differire o rinviare sia fonte inesauribile del processo decostruttivo.
Quindi, né metafisica e neppure superamento di essa, ma, piuttosto, grammatologia, e cioè una pratica che mette in luce e decodifica le componenti logocentriche sempre presenti nel linguaggio.