sabato 31 dicembre 2016

Le scuole socratiche minori

Dopo la morte di Socrate vennero fondate delle scuole da parte di alcuni dei suoi discepoli. La storiografia filosofica li definisce “scuole socratiche minori” per differenziarle dall'indirizzo di Platone, e cioè dello scolaro più importante di Socrate.
Le scuole socratiche sviluppano alcuni aspetti del pensiero del maestro, che in parte venne modificato per rispondere alle esigenze del tempo. Tutte, però, cercano di fondare un'etica universalmente valida; dando soluzione, quindi, alla questione principale della speculazione di Socrate.
La nascita delle scuole socratiche è da cercare nelle questioni politiche di Atene nel V secolo a.C. La città era governata da un partito democratico di stampo conservatore. A capo di esso si aveva Trasibulo, nemico di Socrate, perché quest'ultimo era stato amico (oltre che amante) di Alcibiade, che si era fatto fama di patteggiare per Sparta e di avere tradito Atene.
Trasibulo intendeva riportare in auge i valori prefissati da Pericle. Si intendeva, infatti, restaurare gli antichi ideali, i principi morali e i costumi tradizionali, fondati sulla religione ufficiale. In realtà, i tempi erano profondamente cambiati, e i giovani prestavano attenzione alle lezioni dei sofisti, che criticavano e polemizzavano contro ogni principio o verità che si basasse sulla tradizione o sulla religione. In questo contesto si inseriva anche Socrate, che, con la sua maieutica e con il suo perenne dialogo, poneva in discussione ogni principio considerato certo. A tale ragione, venne ritenuto un nemico pubblico. Con l'accusa di empietà e di corrompere i giovani per sedurli alla falsità, venne condannato a morte.
In realtà furono i rapporti che Socrate ebbe con Alcibiade e Crizia a procurargli la diffidenza dei nuovi governatori; e sebbene sia Alcibiade che Crizia fossero morti, i democratici non si sentivano tranquilli finché non veniva eliminato colui che era considerato il loro ispiratore e che godeva ancora di grande credito presso l'opinione pubblica ateniese.
Molti discepoli di Socrate temettero per la propria vita. Decisero, quindi, di allontanarsi da Atene e di trasferirsi in altre città. Qui fondarono le proprie scuole e partirono dalla convinzione che la politica, ormai, si fosse totalmente discostata dalla filosofia. Per tal motivo, saggio era colui che viveva al di fuori della società e che si ritirava in se steso. Il filosofo, inoltre, doveva studiare ed approfondire la questione etica. Ciò al fine di giungere a delle soluzioni che permettano al singolo individuo di risolvere i propri problemi esistenziali.
La scuola Megarica
La scuola di Megara venne fondata da Euclide di Megara (450 a.C – 365 a.C), allievo di Zenone di Elea e di Socrate. Euclide, afferma Platone, fu testimone oculare della morte del maestro.
Tra gli esponenti più importanti della scuola di Megara abbiamo Eubulide di Mileto (450 a.C. - 380 a.C.), Stilpone di Megara e Diodoro Crono. Essi operarono nella metà del IV secolo a.C. e concentrarono le proprie ricerche sulla logica. A tale ragione vennero considerati gli eredi della dialettica di Zenone di Elea e chiamati i “nuovi eleati”.
In logica i megarici operarono degli studi che chiariscono che ad uno stesso soggetto non possono essere riferiti più attributi (negazione della predicazione) e che uno stesso predicato non può essere riferito a molteplici soggetti (negazione della generalità dei predicati). Ciò significa che il giudizio, inteso come unione di un predicato con un soggetto, può essere posto solo come identità. Quindi, possiamo effettuare solo affermazioni di identità. Ad esempio, possiamo dire che “coraggio è coraggio”, “bene è bene”, ecc. Ciò risponde ai postulati parmenidei, secondo cui l'essere coincide solo con se stesso.
Stilpone di Megara polemizza contro il giudizio aristotelico, affermante che di un soggetto si può predicare un qualsiasi termine. A tal riguardo Stilpone ritiene che:
Se predichiamo il correre di un cavallo, egli dice che il predicato non è identico al soggetto di cui si predica; l'essere del cavallo differisce infatti dall'essere del correre, perché se siamo richiesti della definizione dell'uno e dell'altro, non diamo la stessa risposta. Così anche la definizione dell'essenza necessaria di un uomo è diversa da quella di buono. Donde deriva che sbagliano quelli che predicano i due termini uno dell'altro; se sono identici infatti il buono e l'essere uomo, il correre e l'essere cavallo, come potremo predicare il buono anche del cibo e della medicina e il correre del leone e del cane? Ma se sono diversi non è corretto dire che l'uomo è buono e il cavallo corre.” Plutarco, Contro Colote, 23, 1120a.
Euclide di Mileto confutava le dimostrazioni partendo dal presupposto che le conclusioni sono sempre incerte. Alla stessa maniera, anche i ragionamenti comparativi non assumono statuto di certezza. Ed infatti, se dico che una cosa è simile ad un'altra, è meglio osservare la cosa stessa, e non l'oggetto ritenuto simile; se, invece, sono oggetti diversi, allora l'accostamento tra di essi risulta superfluo.
Euclide connette la filosofia di Zenone di Elea con la morale. Da tale unione si ricava che l'essere e il bene coincidono. Entrambi, infatti, sono eterni, immutabili e incorruttibili. Il Bene di Euclide, denominato in molteplici maniere, e cioè come dio, saggezza, intelletto, sapienza, ecc. coincide con l'Essere parmenideo.
A chiarimento di ciò che abbiamo detto riportiamo la testimonianza di Diogene Laerzio, che, in Vita dei filosofi, scrive:
Euclide diceva che uno è il bene, chiamato con molti nomi: a volte saggezza, a volte dio, altre volte intelletto e in altri modi ancora. Egli eliminava ciò che è opposto al bene, dicendo che è non essere. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II, pag. 106.”
Il saggio, il filosofo, quindi, non può cogliere il bene nel quotidiano. Deve, pertanto, allontanarsi da ogni desiderio e da ogni passione, per giungere all'apatia.
La morale della scuola di Megara coincide per molti versi con quella dei Cinici e sarà di ispirazione per quella stoica. A tal riguardo, basta ricordare che Zenone di Cizio fu allievo di Stilpone.

La scuola cinica
La scuola cinica venne fondata da Antistene. Egli aveva conosciuto Socrate in età avanzata e da giovane era stato discepolo del sofista Gorgia. Antistene fu autore di un'opera dal titolo Sulla liberta e la schiavitù.
Il nome di scuola cinica ha una doppia valenza. Ed infatti, da una parte è dato dal fatto che la scuola venne fondata in un antico ginnasio e santuario di Atene, situato in una zona periferica, dal nome Cinosarge (il cane agile), che accoglieva ogni genere di persone, compresi schiavi, prostitute, stranieri ed illegittimi. Dall'altra parte, invece, indicava il nome con cui venivano chiamati in maniera dispregiativa dagli altri filosofi. I cinici, infatti, venivano criticati per il loro comportamento libero e irrispettoso di qualsiasi regola del buon vivere sociale. Gli stessi cinici affermavano di vivere come i cani, e cioè in maniera semplice e naturale, senza ricercare alcuna cosa e alcun bene materiale.
Il saggio, quindi, doveva vivere seguendo la ragione. Ciò al fine, non solo di non sottostare alle passioni, ma anche di poterle controllare. Inoltre, doveva avere dominio di sé e doveva bastare a se stesso.
Antistene polemizzava contro lo stile di vita cittadino e criticava tutti coloro che credevano nelle disparità sociali e razziali e che approvavano la schiavitù. Per tali motivi, veniva accusato di frequentare chiunque, anche i delinquenti ed i malvagi. Egli rispondeva che anche i medici stanno con i malati, ma non per questo si ammalano essi stessi.
L'esponente cinico più conosciuto è Diogene di Sinope. Questi fu l'unico che riuscì a farsi accettare come allievo dal maestro Antistene.
Diogene ebbe molti seguaci. I più importanti furono Onesicrito, Monimo, Cratete di Tebe con la moglie Ipparca e il cognato Metrocle.
In seguito, si ebbero Menedemo e Menippo di Gadara. Questi, insieme a Bione di Boristene, Talete e Cercida, fece assurgere a genere letterario vero e proprio le diatribe date dalle discussioni etiche effettuate con toni sarcastici, satirici, impetuosi ed aspri.
La scuola cirenaica
La scuola di Cirene venne fondata dal discepolo di Socrate Aristippo. Questi si recò a Corinto e a Siracusa. Qui conobbe quasi certamente Platone. Aristippo morì nel 355 a.C. e gli succedette alla guida della scuola la figlia Arete e il figlio di lei Aristippo Metrodidatta. Quest'ultimo definì la dottrina ufficiale della scuola ed elaborò la dottrina dell'edonismo, attribuita al nonno.
Per gli esponenti della scuola di Cirene alla base dell'agire umano si hanno le sensazioni e le passioni. Aristippo, come il maestro Socrate, riteneva che la matematica e la fisica non potessero elaborare conoscenze certe. L'unico sapere sicuro che l'uomo può sviluppare è quello della condotta morale. Ora, mentre per Socrate, essa coincideva con la virtù, per i cirenaici coincideva con il piacere corporeo. Quest'ultimo veniva inteso come movimento calmo e dolce, che si contrapponeva a quello aspro e violento dato dal dolore. Bisognava, quindi, comportarsi come Aristippo, che si adeguava con
[…] disinvoltura a luogo, a tempo, a persona e recitava il suo ruolo convenientemente in ogni circostanza. Perciò più degli altri godeva del favore di Dionisio, poiché riusciva sempre a rendere accettabile ogni situazione. Godeva il piacere dei beni presenti, ma rinunziava ad affaticarsi per il godimento di beni non presenti. Fu per questo che Diogene lo chiamava cane (o cinico) regale”.
Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, II, pag. 66,

Ciò non significa affermare che tutti i piaceri portino al bene. Per Aristippo, infatti, bisogna godere solo di quei piaceri che la ragione reputa idonei. Inoltre, è sempre meglio astenersi dai piaceri, dominarli e non lasciarsi prendere e vincere da essi.
I cirenaici, infine, rifiutavano qualsiasi forma di partecipazione politica. Per loro, la gestione della cosa pubblica era causa di turbamento e di dolore. Inoltre, non intendevano legarsi ad alcuna nazione, in quanto si ritenevano cittadini del mondo.
Da ricordare è il cirenaico Anniceri, che, oltre ad avere elaborato una raffinata dottrina etica, riscattò Platone dalla schiavitù.
Altro esponente di rilievo fu Egesia. Anche lui sviluppa una concezione etica edonistica. Questa, però, si distingue da quella di Aristippo. Ed infatti, Egesia non ricercava il piacere, ma piuttosto l'assenza di dolore, e cioè l'insensibilità, l'imperturbabilità e la tranquillità interiore perfetta ed assoluta. Una concezione di difficilissima realizzazione nel quotidiano e che culminava, per tale motivo, con il suicidio. Egesia passò alla storia come il persuasore di morte e scrisse un trattato dal titolo Sul suicidio mediante il digiuno.
Infine, da menzionare è Teodoro. Questi si predicava ateo e, oltre a negare l'esistenza degli dei, polemizzava contro qualsiasi tipo di valore tradizionale, anche l'amicizia e l'amore verso la propria patria. Inoltre, Teodoro legittimava l'adulterio, il furto, il sacrilegio. Essi, infatti, per la loro costituzione naturale, non erano sempre da condannare.
La scuola eliaco-eretriaca
Bisogna ricordare anche la scuola socratica minore fondata da Menedemo di Eretria. Egli, oltre che filosofo, fu scrittore conosciuto di drammi a carattere satirico e di tragedie. Fu un maestro nell'arte dell'eristica e si diede anche alla politica.
Scarse sono le notizie su di lui. Sappiamo con certezza che proveniva dall'Eretria e che visse tra il 339 a.C. e il 265 a.C. Fu discepolo di Fedone di Elide. Alla morte di questi si trasferì in Eretria e qui, insieme all'amico Asclepiade di Fliunte, fondò una nuova scuola filosofica. Le poche testimonianze su Menedemo di Eretria ci provengono da Plutarco, da Diogene Laerzio, da Cicerone e da Simplicio.
Venne sospettato di tradimento politico in favore della Macedonia e, costretto a fuggire, si recò alla corte di Antigono Gonata. Qui morì nella disperazione.
Il nucleo centrale del suo pensiero afferma che il bene coincide con l'unico essere di stampo eleatico e in etica riprende sostanzialmente il pensiero stoico.


La scuola eleatica

La scuola eleatica, il cui massimo rappresentante fu Parmenide, operò tra il IV – V secolo a.C. e venne fondata ad Elea, una colonia greca dell'antica Lucania, oggi comune di Ascea, nel Salerno.
Fu un circolo presocratico ed ebbe come esponenti Zenone di Elea, Melisso di Samo e Senofane di Colofone. Quest'ultimo, considerato da molti storici della filosofia il fondatore della scuola, sviluppò una critica all'antropomorfismo, che venne portata a compimento da Parmenide con l'elaborazione del concetto di essere. In realtà, non si hanno prove certe su chi sia stato il caposcuola. Le poche conoscenze che abbiamo di questo circolo filosofico sono tutte indirette e provengono dai testi di autori del tempo di Parmenide.
Senofane di Solofone fu il primo pensatore che criticò chiaramente il sistema antropomorfico greco e, con esso, tutto quanto l'impianto mitologico espresso neelle opere di Omero e di Esiodo. Parmenide elaborò ulteriormente la concezione di Senofane e la sviluppa in senso ontologico, gnoseologico e linguistico.
In seguito, la scuola si concentrò su tematiche principalmente eristiche e retoriche. Molto probabilmente perché i contemporanei, ritenendo offensive le dottrine professate da questi filosofi, ne censurarono il pensiero.
Le speculazioni eleatiche non cessarono di esistere, ma confluirono all'interno dell'Accademia platonica e ne divennero i capisaldi del sistema filosofico metafisico.
Gli Eleati rifiutavano un sapere che si basasse sui sensi e davano validità epistemologica a quelle conoscenze che derivano da premesse chiare ed evidenti.
Le dottrine principali della scuola eleatica criticavano le teorie dei filosofi naturalisti di Mileto, che spiegavano l'esistenza del tutto mediante degli elementi primari. Basta pensare a Talete con l'acqua o ad Eraclito con il fuoco e il suo perpetuo movimento. Per gli Eleatici, invece, a fondamento del Tutto si aveva un principio unitario ed universale. Esso è l'essere, che, in quanto immutabile, immobile, eterno ed increato, non poteva essere colto mediante i sensi, sempre mutevoli e contraddittori, ma per mezzo del pensiero. Solo quest'ultimo poteva far giungere alla conclusione che a fondamento del tutto si ha l'Essere e che Tutto è Uno. L'essere, inoltre, essendo eterno, è ingenerato. Se fosse il contrario, bisognerebbe ammettere che l'essere provenga dal non – essere. Ma, in quanto non – essere, nulla può provenire da esso. Anzi, proprio perché non è, di esso non può essere detto nulla. Ed infatti, di ciò che non è non si può parlare, perché risulta impossibile discutere di ciò che non esiste.

La scuola di Elea sviluppò un modo di argomentare che fu alla base della nascita della logica occidentale. 

Aristotelismo

Il pensiero aristotelico visse un periodo di declino dalla morte dello stagirita sino all'inizio dell'era cristiana. Il successore al Liceo, dopo la morte di Aristotele, fu Teofrasto, che resse la scuola dal 323 a.C. al 284 a.C. Teofrasto fu un uomo di vastissima cultura e di fertili innovazioni nel campo della ricerca scientifica; non riuscì, però, a fare conoscere e a diffondere il nucleo centrale del pensiero del maestro. I discepoli di Aristotele, inoltre, non riuscirono ad intendere correttamente le dottrine filosofiche peripatetiche e molti di questi scolari elaborarono concezioni materialistiche di stampo presocratico. Con la morte di Teofrasto, si ebbe come successore al Liceo Stratone di Lampsaco ( dal 284 a.C. al 270 a.C.). Questi operò la rottura più clamorosa con i dettami originali del circolo peripatetico. L'aristotelismo, quindi, viveva l'inizio del suo declino e del suo oblio. Quest'ultimo venne favorito dal fatto che Teofrasto, alla sua morte, lasciò gli edifici del Peribato alla scuola, ma diede la biblioteca con tutte le opere non pubblicate di Aristotele a Neleo di Scepsi. Questi trasferì la biblioteca in Asia Minore e la lasciò agli eredi. Essi nascosero i libri in una cantina, per evitare che cadessero nelle mani del re Attalidi, che stava facendo costruire una biblioteca a Pergamo. I libri di Aristotele rimasero dimenticati in questo luogo finché un certo Apellicone, bibliofilo, non li acquistò per trasferirli nuovamente ad Atene. Dopo la morte di Apellicone, i testi vennero confiscati nell'86 a.C. da Silla, che li fece trasportare a Roma per affidarli al grammatico Tirannione, con il compito di trascriverli.
La scuola aristotelica, privata dagli scritti esoterici, che contenevano il pensiero più autentico dello Stagirita, entrò in una profonda crisi. Si fecero, pertanto, spazio altre filosofie, come quella epicurea, stoica e scettica.
Tirannione cercò di sistemare ed ordinare le opere aristoteliche, ma non riuscì a finire l'opera. Nel frattempo, iniziarono a circolare a Roma alcune opere di Aristotele. Si trattava, però, di testi mal tradotti, con molte imprecisioni, a tratti incomprensibili, frutto più di un intento remunerativo che culturale e filosofico.
L'opera di sistemazione si ebbe con Andronico di Rodi. Nel fare ciò, egli compì il primo passo per la rinascita del pensiero aristotelico.
Andronico raggruppò le opere di Aristotele per argomenti, unì i trattati più brevi con altri riguardanti le stesse indagini, diede nuovi titoli ed organizzò i libri di logica in un solo corpus. Alla stessa maniera procedette con quei testi riguardanti argomenti di fisica, di metafisica, di politica, di estetica e di retorica.
La sistemazione di Andronico rimase invariata sino ai giorni nostri.
Le opere esoteriche, al contrario delle essoteriche, erano destinate agli allievi del Liceo. Per tale motivo erano molto complesse. Per facilitarne la lettura, si iniziarono a compilare dei commentari, che spiegavano passo per passo ogni frase del testo.
Andronico, Boeto di Sidone, Nicola di Damasco e Senarco di Seleucia (operanti tutti nel I secolo a.C.) prepararono monografie, parafrasi e sintesi delle opere dello stagirita.

I commentari si diffusero durante i primi tre secoli dell'era cristiana, e divennero il genere letterario indispensabile per leggere ed intendere il pensiero di Aristotele. Tra i più celebri commentatori sono da ricordare Ermino, Adrasto di Afrodisia, Aspasio , Alessandro di Ege e, il più eminente, Alessandro di Afrodisia. 

Il neoplatonismo

Numenio di Apamea rappresebta il ponte di congiunzione tra il medioplatonismo e il neoplatonismo. Colui che, però, pose i capisaldi del neoplatonismo fu Ammonio Sacca, che fondò una scuola ad Alessandria d'Egitto tra il II e il III secolo d. C.
Ammonio Sacca crebbe in una famiglia cristiana, ma, come ci testimonia Porfirio, passò al paganesimo a seguito dello studio della filosofia. Si contraddistinse per una vita restia alla mondanità, incentrata all'ascesi e allo studio, al di fuori di rapporti sociali e politici, in compagnia solo dei discepoli più stretti. Non mise per iscritto alcuna dottrina. Conseguentemente il suo pensiero ci rimane sconosciuto. Dovette essere, comunque, un intelletto fine. Ciò si evince da alcuni aneddoti, come quello che narra che Plotino, giunto in Alessandria, assistette alle lezioni dei filosofi più conosciuti del tempo. Di tutti questi, però, ne rimase deluso. Portato da Ammonio, Plotino, però, esclamò: “Questo è l'uomo che cercavo”. Porfirio, Vita di Plotino, capitolo III, in traduzione di Mario Casaglia in Enneadi di Plotino, a cura di M. Casaglia, Ch. Guidelli, A. Linguiti, F. Moriani, UTET, Torino 1997.
Plotino rimase all'interno della scuola di Ammonio Sacca per circa undici anni e il suo rapporto dovette essere simile a quello che Platone ebbe con Socrate. Sembra, infatti, che molte dottrine plotiniane siano riproposizioni del pensiero del maestro.
Nella scuola neoplatonica di Ammonio Sacca si contraddistinsero alcune personalità. Tra di esse, le più importanti furono quella di Erennio, Origene Pagano, Longino, oltre che, ovviamente, quella di Plotino.
Plotino stesso fondò una scuola a Roma nel 244 d.C.. I rappresentanti più importanti di essa furono Amelio e Porfirio (233 – 305). Quest'ultimo fondò un circolo di neoplatonici in Sicilia.
A Giamblico si deve la scuola di Siria. Essa venne creata dopo il 300 ed ebbe come personalità eminenti Teodoro di Asine, Dessipo e Sopatro di Apamea.
Edesio, allievo di Giamblico, fondò una scuola a Pergamo. Tra i massimi esponenti si ebbe Massimo, Crisanzio, Prisco, Eusebio di Mindo, Eunapio, l'imperatore Giuliano detto l'apostata e l'allievo di lui Sallustio. La scuola entrò in crisi e cessò di esistere subito dopo la morte dell'imperatore Giuliano.

Ad Alessandria venne fondata una seconda scuola neoplatonica in concomitanza di quella di Atene. Qui si ebbero Asclepio, Olimpiodoro, Elia, Davide e Stefano di Alessandria, Ipazia, Ermia e Giovanni Filopono.
Le scuole, pur condividendo le tematiche e le concezioni di base, si contraddistinguevano per gli indirizzi. Ed infatti, la scuola di Plotino non innestò la propria filosofia con credi religiosi, né cedette, se non in alcuni casi, a pratiche magico – teurgiche. Al contrario, le scuole di Giamblico e di Atene mescolarono il pensiero filosofico con quello mistico – religioso. In molti casi, il neoplatonismo offriva una difesa ed una apologia alla religione pagana politeista. In tal senso, le pratiche cultuali divenivano completamento della filosofia.
La scuola di Alessandria si distinse per il carattere erudito, di sintesi e spiegazione delle dottrine e delle concezioni neoplatoniche. La scuola di Pergamo, infine, ebbe una prevalenza mistica – religiosa, a discapito della pura speculazione.
Plutarco di Atene fondò una scuola neoplatonica ad Atene alla fine del IV secolo d.C.. Tra i suoi membri si ebbe Isidoro, Damascio, Prisciano, Simplicio, Domnino e, la personalità più illustre, Proclo. La scuola venne chiusa nel 529 d.C. per volere di Giustiniano mediante un editto. Per l'importanza che riveste, ne riportiamo uno stralcio:
Noi proibiamo che venga insegnata ogni dottrina da parte di coloro che sono affetti dalla pazzia degli empi Pagani. Perciò nessun Pagano simuli di istruire coloro che sventuratamente li frequentano, mentre, in realtà, egli non fa altro che corrompere le anime dei discepoli. Inoltre, che egli non riceva sovvenzioni pubbliche, poiché non ha nessun diritto proveniente da divine scritture o da editti statali per ottenere licenza di cose di questo genere. Se qualcuno, qui (ossia a Costantinopoli) o nelle provincie, risulterà colpevole di questo reato e non si affretterà a ritornare in seno alla nostra santa Chiesa, insieme alla sua famiglia, ossia insieme alla moglie e ai figli, cadrà sotto le suddette sanzioni, le loro proprietà verranno confiscate ed essi stessi verranno mandati in esilio”.
(Giovanni Reale, Vita e Pensiero, V&P Università, Milano, 2001, pag. 299)
Il provvedimento di Giustiniano non fece altro che accelerare un processo di profonda crisi della filosofia antico – pagana. Profonda crisi che, ovviamente, coincideva con la dirittura di arrivo del mondo politeista e con l'affermazione della Cristianità.


Il medioplatonismo

Silla nell'86 a.C conquistò Atene e fece distruggere sia l'Accademia che il Liceo. Finisce, in tal modo, il platonismo che, oltre a vedere distrutta la propria sede, aveva visto un progressivo impoverimento delle proprie dottrine, innestate da Antioco con tematiche proprie dello stoicismo.
Il platonismo rinacque poco dopo ad opera di Eudoro (I secolo a.C.) in Alessandria e si espanse in altri centri. Si contraddistinse per delle concezioni nuove, che culmineranno nella grande sintesi operata da Plotino. È da dire che il platonismo che va da Eudoro sino al II secolo d.C. perde molte delle caratteristiche antiche e sviluppa delle nuove speculazioni, che, ancora non ben definite e delineate, entrano spesso in contraddizione tra loro. Il platonismo di questi secoli prende il nome di “medioplatonismo”.
Vi sono alcune tematiche comuni a tutto quanto il movimento filosofico del medioplatonismo. In primis, si ha il recupero del sovrasensibile, dell'immateriale e del trascendente e il conseguente abbandono del materialismo dominante ormai da tanto tempo nel platonismo. Venne, pertanto, ripresa la concezione delle Idee, che si cerco di innestare con la posizione aristotelica.
Il medioplatonico Albino considerò le Idee come pensieri di Dio. Questi, situati nel mondo intellegibile, costituivano l'attività dell'Intelligenza Suprema, che si rendeva immanente nelle forme.
Con la trasformazione del mondo delle Idee si ebbe una conseguente trasformazione dell'intera struttura del mondo incorporeo, con esisti che culmineranno nel neoplatonismo.
Il testo centrale del medioplatonismo divenne il Timeo, che fu il fulcro di tutto quanto lo sviluppo filosofico del movimento. Venne ripresa la dottrina della Monade e della Diade predicata da Platone nelle lezioni non scritte. Essa comunque non ebbe quell'importanza che assunse presso i neopitagorici.
L'etica venne rifondata e venne abbandonato il principio morale ellenistico di seguire la propria natura; cioè di conformarsi alla physis e al logos. Ed infatti, perdendo vigore la dottrina materialistico – immanentistica del cosmo, ne decade anche il dettame etico. Nasce, quindi, un nuovo motto, e cioè quello di imitare la divinità, di seguirla, di avvicinarsi sino a farsi un tutt'uno con essa.
Sono da ricordare i medioplatonici Trasillo, Onadandro, Plutarco di Cheronea, discepolo di Ammonio. Quest'ultimo aveva costituito un nucleo di platonici ad Atene. Nel II secolo d.C. si ha Gaio, alla cui scuola appartengono Albino e Apuleio. Da menzionare sono anche Attico, Nicostrato, Celso, Arpocrazione, Severo e il retore Massimo Tiro.
Di questi autori ci sono rimasti per la maggior parte solo frammenti. Le uniche eccezioni sono costituite da Albino (di cui ci è pervenuto il Didascalico) e da alcuni trattati di Plutarco.
Il medioplatonismo riveste una rilevante importanza all'interno dello sviluppo del pensiero successivo. Ed infatti, lo stesso neoplatonismo rimarrebbe inspiegabile nella sua genesi, senza prendere in considerazione questo movimento. Lo stesso Plotino, durante le sue lezioni, commentò testi fondamentalmente neoplatonici e peripatetici. Inoltre, le soluzioni che avanzò erano fondamentalmente di ispirazione medioplatonica.
Il primo pensiero cristiano ha origine dal medioplatonismo. Ed infatti, da esso desunse, oltre il modo di procedere razionalmente, le categorie speculative.
Il medioplatonismo, quindi, rappresenta un ponte di unione tra il vecchio mondo pagano e il nuovo mondo cristiano. Rimase comunque un movimento di intermezzo perché al suo interno non si ebbero personalità di rilievo e non vi fu nessun autore che seppe interpretare egregiamente il pensiero del movimento o che ne seppe compiere una sintesi definitiva.
Numenio di Apamea, la mente più brillante del neopitagorismo, fuse i due movimenti. Egli, nel rispondere alla domanda metafisica per eccellenza, e cioè “che cos'è l'essere?”, affermò non solo la natura immateriale dell'essere, ma addirittura la sua valenza significativa sulla materialità. L'essere, infatti, non può essere corporeo. Se così fosse, sarebbe sottoposto ad un continuo mutamento. Al contrario, l'essere è un qualcosa di stabile. Si dovrebbe, pertanto, porre un qualcosa che renda il corporeo stabile ed immutabile. Quel qualcosa non potrebbe essere un corpo, perché questo sarebbe sempre suscettibile di cambiamento. Inoltre, la materia è un qualcosa di indefinito, di irrazionale, di inconoscibile, di indeterminato e di disordinato. Bisogna, quindi, postulare che l'essere sia incorporeo, una realtà intellegibile immutabile ed eterna.
L'essere di Apamea coincide con il dettame di Mosè, e cioè “Colui che è”. Numenio, infatti, riteneva che l'essere platonico non sarebbe altro che l'essere biblico del vecchio testamento, di cui Platone aveva avuto conoscenza e che aveva interpretato in maniera allegorica, alla stessa maniera di Filone l'Ebreo o d'Alessandria nell'interpretazione della Bibbia.
Numenio, inoltre, cercò di spiegare la struttura dell'essere. Nel fare ciò, elabora una dottrina gerarchica – ipostatica in senso triadico. Il primo Dio pensa le Idee, ossia le pure essenze. Il secondo Dio li pone in essere, e cioè, mediante le pure essenze o idee, costruisce e costituisce il mondo. Numenio interpreta l'idea del Bene, di cui parla Platone nella Repubblica, come l'idea principale, da cui derivano tutte le altre. Tale idea sarebbe Dio. Il Demiurgo, invece, è il secondo dio, dipendente dal Dio Supremo. Solo quest'ultimo è Sommo Bene, mentre il demiurgo è detto buono, ma non è Bene egli stesso. Mentre il Sommo Bene è superiore nell'essenza; il secondo è superiore nell'intelletto, e, coincidente con esso, pone in attività l'universo pur rimanendo stabile. Egli infatti si caratterizza per un movimento connaturato e coincide, in qualche maniera, con l'Atto Puro di Aristotele.
Il primo Dio produce senza mutare e ordina il cosmo. Il secondo Dio da una parte contempla il primo Dio, e cioè gli intellegibili; dall'altra, invece, agisce sulla materia, costruisce il mondo e lo ordina. Il terzo Dio è detto da Numenio “anima del mondo” o “anima buona”, per contraddistinguerla con quella cattiva, intrinseca nella materia.

Molti sono gli elementi in comune con Plotino. Ed infatti, con Apamea si è già giunti al periodo del neoplatonismo.

Neopitagorismo

La scuola pitagorica rimase un fervido centro culturale sino al IV secolo a.C., ossia sino a quando non si ebbero una serie di sommose di stampo democratico in Magna Grecia. La crisi della setta mistica – religiosa ci viene testimoniata dallo stesso Filolao, che, contemporaneo di Socrate, vendette i libri pitagorici, sino ad allora tenuti segreti.
Già a partire dal III secolo a.C., però, il pitagorismo rinacque. Dapprima risorse in maniera alquanto ambigua. Ed infatti, alcuni anonimi pubblicarono sotto falsi nomi una serie di libri, che avevano l'intento di fare passare per pitagoriche dottrine di filosofi posteriori. Questi “falsi” scritti di Pitagora non hanno alcun interesse filosofico, ma piuttosto culturale e documentaristico.
Molto più importanti sono, invece, gli scritti dei nuovi pitagorici, che, al contrario dei precedenti, non si presentano in maniera anonima e pongono in essere nuove concezioni, soprattutto di carattere metafisico.
Il primo neopitagorico di cui abbiamo testimonianza certa è Nigidio Figulo, appartenente al mondo latino. Il retore Cicerone, suo contemporaneo, gli conferisce il merito di avere rifondato la setta pitagorica, da tempo scomparsa. In realtà, il pensiero pitagorico, soprattutto nelle sue accezioni etiche, religiose e misterico – orfiche, era continuato a sopravvivere, anche se non più organizzato in una scuola o in un movimento ben definito. Una testimonianza in tal senso ci viene data dalla leggenda secondo cui Numa, re romano, sarebbe stato un discepolo di Pitagora. Ed infatti, a questo monarca, furono attribuiti molti falsi libri pitagoreggianti.
Nigidio Figulo ebbe, come già detto, il merito di avere rifondato la scuola pitagorica e di avergli dato nuovamente uno statuto ben preciso. Da un punto di vista filosofico Figulo non sviluppò, però, alcuna forma di pensiero significativo.
Quinto Sestio, all'inizio dell'era cristiana, fondò il circolo dei Sestii. Questa setta ebbe un rapido successo, ma si estinse velocemente. In essa erano confluite alcune tematiche, soprattutto di stampo etico, dello stoicismo. I Sestii, al contrario degli stoici, affermavano l'incorporeità dell'anima e, grazie a Sozione, ripresero la dottrina della metempsicosi professata da Pitagora. Una peculiarità di questo movimento era quella di fare quotidianamente un esame di coscienza, nei modi che erano prefissati nei Versi Aurei attributi a Pitagora.
Tra i neopitagorici che svilupparono dottrine metafisiche si hanno Nicomaco di Gerasa (I secolo d.C.), Numenio di Apamea (II secolo d.C) e il discepolo di lui Cronio.
Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo d.C., impersona, invece, l'aspetto mistico del neopitagorismo. Di lui scrisse la vita Filostrato per volere di Giulia Domna (moglie di Settimo Severo). In questa biografia Apollonio di Tiana viene presentato come il fondatore di un nuovo culto religioso, i cui punti centrali vertevano sull'interiorità e sulla spiritualità.
La scuola neopitagorica sviluppa un nucleo di dottrine comuni. Tra queste le più importanti sono quelle affermanti la natura incorporea ed immateriale dell'anima, in conformità con il pensiero pitagorico antico. L'incorporeo veniva inteso secondo la dottrina della Monade, della Diade e dei numeri. Questa concezione non deriva dal pitagorismo antico, ma dalle lezioni non scritte da Platone, da Speusippo e da Senocrate.
Il numero non viene più inteso come principio concreto, ma come elemento metanumerico, e cioè come principio ben più profondo, che per la difficoltà di rappresentazione, viene simboleggiato mediante il numero.
La dottrina della Monade e della Diade viene sottoposta ad ulteriore studio ed approfondimento. In maniera generale, i due termini vengono interpretati come principi supremi di contrari, ossia come originaria coppia di opposti. Si dava, però, una maggiore importanza alla Monade, che veniva distinta in una “prima” ed in una “seconda” monade. A quest'ultima veniva contrapposta la Diade. La stessa terminologia ci appare poco chiara. Ed infatti, alcuni neopitagorici con la parola Uno indicavano la prima monade; altri, invece, la seconda.
La dottrina delle idee platoniche perdette di importanza per dare spazio alla dottrina dei numeri, che venivano intesi in senso teologico.
Ritornava la concezione dell'immortalità dell'anima e della sua spiritualità. Scopo dell'uomo era, quindi, di staccarsi dal sensibile e di ricongiungersi con il divino.
L'etica, infine, assumeva delle importanti caratteristiche mistiche. Si sviluppa un nuovo ideale di filosofo, che, impersonato da un mitico Pitagora, doveva essere simile ad un dio o demone, e cioè ad un uomo superiore, in stretto contatto con la divinità. Lo stesso sapere veniva concepito come rivelazione divina.

Il più grande pensatore del neopitagorismo fu certamente Numenio, che, però, fuse il movimento con il medioplatonismo.

La scuola pitagorica

La scuola pitagorica venne fondata da Pitagora a Crotone nel 530 a.C. sull'esempio offerto dalle comunità orfiche e dalle sette religiose sorte in Egitto e a Babilonia.
La scuola di Crotone, appartenente al periodo presocratico, si contraddistinse per gli interessi per la matematica, per la musica, per l'astronomia e per la filosofia; e, si configurò, sin dall'inizio, come una setta mistica, aristocratica e scientifica.
Giamblico, in Vita di Pitagora, ci testimonia il carattere misterico del movimento con queste parole:
« Dinanzi agli estranei, ai profani, per così dire, quegli uomini parlavano tra loro, se mai dovesse capitare, enigmaticamente per simboli [...] quali ad esempio: "Non attizzare il fuoco con il coltello" [...] che somigliano – nella loro pura espressione letterale – a delle regole da vecchietta, ma che, una volta spiegate, forniscono una straordinaria e venerabile utilità a coloro che le comprendono. Ma il precetto più grande di tutti in rapporto al coraggio è quello di proporre come scopo più importante di preservare e liberare l'intelletto [...]. "L'intelletto" infatti – a loro parere – "vede tutto e intende tutto, e tutto il resto è sordo e cieco". »
Giamblico, Vita di Pitagora, 227-228, In Summa pitagorica, traduzione di Francesco Romano, Bompiani 2006, p. 251.

La scuola, quindi, si definiva come comunità religiosa, ma anche come gruppo scientifico e partito politico aristocratico, che, in quanto tale, governò su alcune città dell'Italia meridionale.
L'aspetto mistico del movimento era dato dal fatto che per i greci il sapere coincideva con la liberazione dal peccato e con il conseguente avvicinamento alla deità. Tale concezione si inserisce nella definizione stessa del termine filosofia, e cioè di amore per il sapere, di desiderio di esso in una tensione che mai possiede del tutto l'oggetto, e cioè la conoscenza del tutto.
Bisogna, inoltre, sottolineare il fatto che solo pochi eletti potevano partecipare alle lezioni di Pitagora. Ed infatti, gli iniziati dovevano avere tempo e denaro per dedicarsi esclusivamente agli studi, con la conseguenza di trascurare qualsiasi altra attività remunerativa.
Secondo le testimonianze, Pitagora decise di fondare la scuola a Crotone a seguito del responso dell'oracolo di Delfi, che, interrogato dal filosofo, aveva predestinato che la comunità nascesse in questo centro urbano.
La scuola, quindi, sorgeva in tale città per volere del dio. In realtà, a Crotone si aveva avuto un fervido sviluppo scientifico e medico, che Pitagora, grazie al proprio sapere, alla propria cultura e al proprio carisma, seppe sfruttare per insediare un proprio governo.
La scuola poteva essere frequentata anche dalle donne ed offriva due tipi di insegnamento: uno pubblico ed uno privato.
Pitagora, durante le lezioni pubbliche, spiegava con parole semplici le basi della sua filosofia incentrata sui numeri come principio del Tutto. In quelle private, invece, gli insegnamenti, seguiti solo dagli iniziati, erano di livello più elevato.
Giamblico ci testimonia che i discepoli erano divisi in due gruppi.
Nel primo si avevano i matematici (mathematikoi). Questi costituivano la cerchia degli scolari più ristretta. Essi vivevano all'interno della scuola, praticavano la castità, non mangiavano carne, avevano rinunciato ad ogni avere materiale e avevano l'obbligo di mantenere il segreto sugli insegnamenti appresi. I matematici erano i soli che potevano intervenire e interloquire con il maestro durante il corso delle lezioni.
Nel secondo gruppo si avevano gli acusmatici (akusmatikoi). Essi costituivano la cerchia più larga degli allievi e non erano obbligati a vivere all'interno della scuola, a praticare il celibato e ad astenersi dal mangiare carne. Anche loro dovevano mantenere il segreto sugli insegnamenti del maestro e non potevano intervenire durante le lezioni.
Il carattere misterico – religioso della scuola è confermato dal fatto che le dottrine di Pitagora venivano considerate inconfutabili, e cioè dei veri e propri dogmi, che, in quanto tali, non potevano essere posti in discussione. Famoso è il detto in difesa di Pitagora: “autòs epha” (ipse dixit), e cioè “lui l'ha detto”. Questa espressione chiarisce bene l'atteggiamento degli scolari verso il maestro, dalla cui bocca potevano essere dette solo verità assolute.
Le lezioni venivano impartite nella “Casa delle Muse”, un imponente tempio collocato all'interno delle mura di Crotone, in marmo bianco e circondato da magnifici giardini e portici.
Per Pitagora la salute di un uomo coincideva con l'armonia dell'uomo con se stesso e con il tutto. Viceversa la malattia era il risultato di una disarmonia dell'individuo (microcosmo) con l'universo (macrocosmo). Diveniva necessario, quindi, ristabilirne la giusta armonia.
L'anima, concepita come immortale, doveva essere mantenuta pura ed incontaminata. Tal fine bisognava svolgere e praticare tutta una serie di culti ascetici, sia spirituali che fisici.
Bisognava, ad esempio, fare delle passeggiate solitarie mattutine e serali, praticare esercizi fisici quali corsa, ginnastica e lotta. Era vietato bere del vino, mangiare pietanze complesse, raccogliere un oggetto caduto per terra, toccare un gallo bianco, addentare una pagnotta intera, mangiare il cuore di un animale e camminare sulle strade maestre.
Inoltre, era severamente vietato cibarsi di fave e, addirittura, bisognava evitare qualsiasi tipo di contatto con questa pianta. La leggenda narra che Pitagora, inseguito dai militari di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo in un campo di fave.
La musica, considerata un mezzo per la purificazione del corpo e dell'anima, divenne oggetto di molteplici studi. Questi permisero di scoprire la frequenza dell'onda acustica, e cioè il rapporto numerico alla base dell'altezza dei suoni. La leggenda racconta che Pitagora giunse a tale conoscenza riempendo un'anfora d'acqua e percuotendola. Fatto ciò ne usciva una nota, che cambiava di tonalità togliendo una parte dell'acqua.
Molto probabilmente furono proprio gli studi sulla musica a fare maturare l'interesse per l'aritmetica, che veniva intesa come teoria dei numeri interi. Quest'ultimi erano considerati non entità astratte, ma concrete. I numeri, infatti, venivano concepiti come grandezze spaziali, aventi un'estensione e una forma e rappresentati geometricamente (l'uno era il punto, il due la linea, il tre la superficie e il quattro il solido).
Pitagora, quindi, considera il numero come principio di tutte le cose. Importante è la testimonianza di Aristotele, che, a tal riguardo, scrive,
« Sembra adunque che questi filosofi nel considerare il numero come principio delle cose esistenti ne facciano una causa materiale come proprietà e come modo. Come elementi del numero fissano il pari e il dispari, il primo infinito, l'altro finito. L'uno partecipa di ambedue questi caratteri (essendo insieme pari e dispari). Ogni numero proviene dall'uno e l'intero universo, come già ho detto, è numeri. Altri fra di loro dicono che i principi sono dieci [...] »
Aristotele, Metafisica, I, 5, 986a, citato in Pier Michele Giordano, I presocratici, Edizioni ARS G. L., Vercelli 1996, pp. 103-104

A Pitagora è associata la teoria del tetraktys, e cioè del “numero triangolare”. Essa era rappresentato mediante un triangolo, alla cui base si hanno quattro punti, che decrescono di una unità sino alla punta. Il totale di tutti i punti è di dieci, e cioè di 1+2+3+4=10. Il tetraktys era espressione e sintesi delle quattro specie di enti geometrici: il punto, la linea, la superficie e il solido, ed era ritenuto sacro. Esso, infatti, simboleggiava l'universo, l'armonia e i rapporti numerici che sottostanno al cosmo.
Questo tipo di matematica pitagorica era definita “aritmogeometria” e fece concepire il numero come archè, come principio primo di tutte le cose.
I pitagorici, quindi, al contrario dei filosofi naturalisti, pongono come archè il numero, un'entità che si pone al di là del sensibile perché fonda il reale secondo rapporti quantitativi, e non qualitativi.
A tal proposito, affermava Filolao: «Tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo nulla sarebbe possibile pensare né conoscere.» Diels-Kranz, 44 B 11; (EN) : frammento 4.
Il numero, per l'importanza che assunse presso la scuola pitagorica, venne studiato nelle sue proprietà di numero pari e dispari, di numero perfetto e di numero triangolare. Ai pitagorici si deve la scoperta del teorema che chiarisce che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari a due angoli retti.
Famoso è, invece, il teorema che recita che in un triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, e cioè l'enunciato del teorema noto come teorema di Pitagora. I pitagorici, inoltre, posero la soluzione geometrica di alcune equazioni algebriche e scoprirono i numeri irrazionali. Quest'ultima conoscenza venne taciuta perché contraddiceva la teoria pitagorica secondo cui tutte le quantità possibili sono esprimibili come frazioni. Infine, ad essi si deve la costruzione dei solidi regolari.
Per i pitagorici esiste una coppia di principi originari. Essi sono:
  • l’Uno, o principio limitante;
  • la Diade, o principio di illimitazione.

Tutti i numeri derivano da questi due principi. Ed infatti, dal principio limitante si hanno i numeri dispari; dal principio illimitato si hanno i numeri pari. I dispari, al contrario dei pari, venivano ritenuti perfetti.
Dall'opposizione dei numeri si ricavavano dieci coppie di contrari, che spiegano il costituirsi di tutta la realtà e l'armonia del cosmo.
Gli opposti pitagorici vengono definiti da Aristotele come principi. Essi sono:
1.Limitato-Illimitato
2.Dispari-Pari
3.Unità-Molteplicità
4.Destra-Sinistra
5.Maschio-Femmina
6.Quiete-Movimento
7.Retta-Curva
8.Luce-Tenebre
9.Bene-Male
10.Quadrato-Rettangolo
Aristotele, Metafisica, 985b-986a.
La matematica pitagorica entra in crisi con il discepolo Ippaso di Metaponto. Questi, scoprendo le grandezze incommensurabili, rese impossibile il considerare tutte le grandezze come multiple della grandezza punto.
I pitagorici avevano una profonda venerazione per la sfera. Essa, infatti, avendo tutti i punti che la costituiscono equidistanti dal centro, rappresentava l'armonia. Il centro, a sua volta, essendo il fulcro del solido, teneva insieme tutto quanto il corpo geometrico.
Al pitagorico Alcmeone di Crotone è data la teoria encefalocentrica, e cioè la constatazione che è il cervello l'organo centrale delle sensazioni.
Fu questa una scoperta rivoluzionaria. Ed infatti, sino ad allora, soprattutto per merito degli egiziani, si riteneva che fosse il cuore l'organo centrale del corpo umano.
Le più importanti ed avanzate scoperte astronomiche vennero effettuate dai pitagorici Filolao di Crotone e Iceta di Siracusa. Essi posero al centro dell'universo un immenso fuoco, detto Hestia. Attorno ad essi giravano i pianeti.
Il primo di essi è l'Anti – terra, poi la terra, quindi il Sole, la Luna, gli altri cinque pianeti e, infine, il cielo delle stelle fisse. L'Anti – Terra nasceva per spiegare le eclissi e per fare giungere il numero dei pianeti a dieci, e cioè a quel numero sacro di cui abbiamo già parlato e che veniva rappresentato con il tetrakis.
I pianeti girano intorno a questo grande fuoco secondo rapporti numerici armoniosi e generano un suono raffinato e sublime. L'uomo avverte e sente questi suoni armonici del cosmo, ma non riesce a percepirli in maniera chiara e distinta perché immerso in questo universo sin dalla nascita.
Per il pitagorico Alcmeone l'anima è immortale perché costituita dalla stessa natura del Sole, della Luna e degli astri e nasce dai rapporti numerici.
L'anima immortale, mediante una serie di reincarnazioni, si ricongiungerà con l'anima del mondo. Per fare ciò, però, l'uomo deve esercitarsi alla contemplazione secondo le direttive derivate dall'orfismo e mediante l'ascesi derivante dalla constatazione della sublime armonia data dal numero e dai rapporti numerici.
La scuola entrò in crisi per motivi essenzialmente politici. Ed infatti, i pitagorici erano sostenitori dell'aristocrazia. Quest'ultima, però, entrò in crisi nel 450 a.C., quando vi furono le ondate rivoluzionarie di stampo democratico.